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La svolta dei fondi pensione

Massimo Mucchetti

Una proposta bipartisan per rivoluzionare il sistema previdenziale che non ha prodotto i risultati sperati. E per aumentare le entrate dello stato a costo zero per i cittadini

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Dopo l’approvazione della legge di Bilancio, segnata dalle polemiche sulle microtasse, potrebbe essere utile immaginare soluzioni per irrobustire le entrate dello stato su scala ben maggiore senza imporre nulla ai contribuenti. Anzi, offrendo loro una preziosa opportunità. La materia sulla quale esercitarsi a tal fine è la contribuzione previdenziale. Se rivolta all’Inps, tale contribuzione, fiscalmente deducibile, costituisce un’entrata nel bilancio pubblico. Se invece è rivolta ai fondi assicurativi o negoziali, rimane nell’ambito del settore privato, pur godendo anch’essa di deducibilità fiscale entro certi limiti quantitativi. L’idea è quella di offrire ai lavoratori dipendenti e autonomi la facoltà di integrare la propria posizione contributiva pubblica con versamenti aggiuntivi. La facoltà, ripeto, non l’obbligo. La finanza pubblica ne avrebbe un beneficio di svariati miliardi che verrebbe dopo il beneficio diretto per i lavoratori. I fondi pensione, infatti, non hanno dato fin qui prestazioni entusiasmanti. E domani, al tempo dei tassi zero se non addirittura negativi, non potranno risalire la china se non prendendo sempre più rischi alla ricerca di rendimenti accettabili. E’ dunque arrivato il momento di proporre un’alternativa. 

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Dopo l’approvazione della legge di Bilancio, segnata dalle polemiche sulle microtasse, potrebbe essere utile immaginare soluzioni per irrobustire le entrate dello stato su scala ben maggiore senza imporre nulla ai contribuenti. Anzi, offrendo loro una preziosa opportunità. La materia sulla quale esercitarsi a tal fine è la contribuzione previdenziale. Se rivolta all’Inps, tale contribuzione, fiscalmente deducibile, costituisce un’entrata nel bilancio pubblico. Se invece è rivolta ai fondi assicurativi o negoziali, rimane nell’ambito del settore privato, pur godendo anch’essa di deducibilità fiscale entro certi limiti quantitativi. L’idea è quella di offrire ai lavoratori dipendenti e autonomi la facoltà di integrare la propria posizione contributiva pubblica con versamenti aggiuntivi. La facoltà, ripeto, non l’obbligo. La finanza pubblica ne avrebbe un beneficio di svariati miliardi che verrebbe dopo il beneficio diretto per i lavoratori. I fondi pensione, infatti, non hanno dato fin qui prestazioni entusiasmanti. E domani, al tempo dei tassi zero se non addirittura negativi, non potranno risalire la china se non prendendo sempre più rischi alla ricerca di rendimenti accettabili. E’ dunque arrivato il momento di proporre un’alternativa. 

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I fondi pensione non hanno dato fin qui prestazioni entusiasmanti. E’ dunque arrivato il momento di proporre un’alternativa


 

Partiamo dai fatti. La rappresentazione più completa della realtà si trova nel Rapporto sullo stato sociale 2019, curato da Felice Roberto Pizzuti, storico docente della Sapienza. Ebbene, dal 1998, anno d’esordio dei fondi pensione, ai giorni nostri, le rivalutazioni medie del Tfr e delle pensioni calcolate con il metodo contributivo sono più elevate del rendimento medio dei fondi. Naturalmente, nulla vieta di pensare che i prossimi vent’anni riservino risultati di segno opposto. Non di meno, oggi come ieri, si pone una questione di libertà oltre che di convenienza. La presenterei così: oggi il risparmio previdenziale va all’Inps in parte preponderante e in via obbligatoria per finanziare le pensioni pubbliche, mentre ai fondi ne va una parte minore e in modalità volontaria per avere una pensione integrativa; bene, se il fine accettato da tutti è quello di disporre di qualche soldo in più nella terza età, perché negare la facoltà di arrotondare la pensione pubblica integrando la contribuzione obbligatoria con versamenti volontari, in regime fiscale uguale a quello dei fondi pensione? Perché limitarsi a un’opzione unica invece di averne due? Ma c’è dell’altro.

 

Negli anni Novanta, l’introduzione dei fondi pensione venne giustificata non solo con i vantaggi che tali fondi avrebbero procurato ai sottoscrittori, ma anche con l’esigenza di modernizzare il mercato finanziario italiano povero di investitori istituzionali, e dunque poco propenso a fornire il capitale di rischio necessario allo sviluppo delle imprese. Senonché, alla prova dei fatti, quel disegno riformatore si è rivelato illusorio. Il patrimonio dei fondi pensione è investito in misura del tutto trascurabile in azioni italiane: l’1,1 per cento nei fondi negoziali, il 3,3 per cento nei fondi aperti. Ma anche se ci fosse una maggiore propensione verso il rischio azionario dell’Italia, la sostanza cambierebbe poco. Perché i mercati finanziari, diversamente da quanto credono i più, non servono a ricapitalizzare le imprese per sostenerne lo sviluppo ma a negoziare in modo moderno i diritti di proprietà. Le relazioni annuali della Consob certificano come i flussi finanziari in entrata nelle società quotate (aumenti di capitale) siano sempre meno corposi dei flussi in uscita dalle medesime (dividendi, riacquisto di azioni proprie e offerte pubbliche d’acquisto). Intendiamoci, ai gestori dei fondi non va imputata colpa alcuna: il loro mestiere consiste, fra l’altro, nella diversificazione del rischio paese (l’Italia pesa per il 2 per cento nei mercati globali). Quanto agli amministratori delle società quotate, nessuno può imporre loro di chiedere soldi agli azionisti se non lo si ritiene conveniente. Del resto, come notò a suo tempo Alessandro Pansa, tra il 2000 e il 2015 – con l’eccezione del quinquennio della crisi 2007/2011 – il denaro distribuito agli azionisti da parte delle società quotate nella grandi borse di tutto il mondo eccede del 30 per cento quanto raccolto presso i medesimi azionisti da parte delle società. Si è dunque sbagliato ad attribuire alla previdenza integrativa una funzione propulsiva degli investimenti. 

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L’esigenza di connettere almeno una parte del risparmio previdenziale al ciclo degli investimenti in Italia rimane seria e fondata


 

Che qualcosa non torni lo suggerisce anche la deludente consistenza delle adesioni ai fondi pensione. Se tutti gli aventi diritto aderissero, la previdenza integrativa potrebbe raccogliere 40-50 miliardi l’anno. Ma le adesioni variano tra il 28 per cento degli occupati e il 21 per cento, ove si considerino i paganti effettivi. Il legislatore si aspettava il 40 per cento quando nel 2005 impose la regola del silenzio/assenso per i dipendenti di aziende aderenti a fondi negoziali. E’ evidente che tantissimi lavoratori giudicano la disponibilità immediata del Tfr più utile della pensione integrativa a lungo termine. Non meno evidente è la triste realtà dei working poor, dipendenti o autonomi, che non riescono a risparmiare alcunché. Ma possiamo ragionevolmente escludere che una parte di quanti oggi non affidano ai fondi la propria capacità di risparmio previdenziale aggiuntivo, l’affiderebbero invece volentieri a un soggetto pubblico, con linee gestionali non finanziarie?

 

L’ultimo dato su cui ragionare si riferisce all’uso che viene fatto del capitale accumulato nei fondi pensione. Al termine del periodo di contribuzione, la grandissima maggioranza delle persone sceglie il riscatto del capitale anziché la pensione di scorta. Nel 2018, avverte la Covip, Autorità di vigilanza sui fondi pensione, in 94 mila hanno optato per il riscatto e in 4 mila per la rendita integrativa. Purtroppo, non si dedica a questa tendenza la stessa attenzione riservata ai rendimenti. Se lo si facesse, si scoprirebbe che le pensioni integrative sono così basse che troppo spesso ci vuole un tempo superiore alle aspettative di vita per recuperare il capitale versato e investito. D’altra parte, se ben ricordo, sul riscatto si paga la stessa aliquota fiscale secca del 15 per cento prevista per la pensione integrativa percepita in forma di rendita, almeno fino a un capitale di 75 mila euro; ove il capitale ecceda tale somma, la legge prevede l’obbligo della rendita almeno per la metà della somma. Insomma, all’atto pratico il cosiddetto secondo pilastro previdenziale dà luogo per lo più a una forma di risparmio fiscalmente agevolata. E’ una doppia distorsione. Una distorsione del fine della previdenza integrativa: avere una pensione di scorta. Una distorsione del principio costituzionale della progressività fiscale: a trarre beneficio dall’aliquota secca del 15 per cento, infatti, sono i sottoscrittori più ricchi che subiscono l’aliquota ordinaria del 43 per cento, mentre i poveri l’hanno al 23 per cento. Ma ancora di più ne godono le banche e le assicurazioni che promuovono i fondi pensione o li gestiscono per conto terzi.

 

Mi domando se il centrosinistra, che vuole emanciparsi dai miti del neoliberismo, e il centrodestra, che gioca tanto sul sovranismo, per non parlare del M5s, possono ancora accettare quella costruzione previdenziale degli anni Novanta senza battere ciglio. Certo, interessi potenti non vogliono toccare nulla. E tuttavia un legislatore senza legacy con l’industria finanziaria dovrebbe voltare pagina e consentire una contribuzione aggiuntiva e volontaria all’Inps, con gli stessi benefici fiscali concessi ai fondi, così da arrotondare la pensione obbligatoria con un assegno erogato a ripartizione e calcolato con il metodo contributivo, come la pensione ordinaria del resto. Una tale facoltà potrebbe generare una raccolta contributiva aggiuntiva stimabile in 5-6 miliardi all’anno. O anche più elevata, se l’Inps facesse un marketing analogo a quello delle assicurazioni, confrontando, per esempio, gli elevati costi dei fondi pensione con quelli minimi della previdenza pubblica (nel caso di specie, per quanto possa stupire, è proprio così). 

 


Si è dunque sbagliato ad attribuire alla previdenza integrativa una funzione propulsiva degli investimenti


 

Nel 2012, illustrai questa idea alla presentazione del Rapporto sullo stato sociale di quell’anno nella grande aula della Sapienza, incontrai l’opposizione dei sindacati che controllano i fondi negoziali. La previdenza integrativa, dissero, offre un secondo pilastro a capitalizzazione ed è in forza di tale caratteristica che questo secondo pilastro consente una diversificazione del rischio. Nessuna osservazione venne fatta sulla prevalenza dei riscatti rispetto alle rendite. Le assicurazioni e le banche, paghe delle ricche fees, non ebbero bisogno di aggiungere verbo. Ci riprovai da parlamentare, ma il disegno di legge intitolato IntegraInps rimase in un cassetto del Senato. Peggio: il governo cercò addirittura di consentire ai fondi aperti di catturare i sottoscrittori dei fondi negoziali nel nome della portabilità delle quote di fondo acquisite, benché fosse impossibile l’operazione contraria essendo i fondi negoziali fondi chiusi. La manovra, inserita nel disegno di legge governativo sulla concorrenza, venne fermata dai sindacati, et pour cause. Ma in una democrazia liberale, i sindacati dovrebbero fare anche un passo in avanti e restituire al lavoratore, che prima di tutto è un cittadino adulto, la libertà di scegliere se affidare l’integrazione della propria pensione ai fondi, che scommettono sulla finanza globale, o all’Inps che si basa sull’economia complessiva del paese. Entrambe le soluzioni presentano rischi e opportunità. Non ci sono vangeli. Da leader della Fiom, Maurizio Landini lo capì subito. I suoi colleghi no. Ora Landini guida la Cgil. Arriverà la svolta?

 

Detto delle persone e dei loro diritti, due parole sul contributo che la previdenza integrativa, forte di un patrimonio cumulato di 170 miliardi, potrebbe dare allo sviluppo del paese. Un certo scetticismo è d’obbligo ove si considerino la modestia del quantum oggi destinato all’Italia e la sua ripartizione: il 28,9 per cento del patrimonio dei fondi aperti è investito in titoli del debito pubblico domestico; il 22,9 per cento nel caso dei fondi negoziali; la percentuale investita nell’azionario, e cioè nelle imprese, l’abbiamo già vista. 

 


Nel 2018, avverte l’Autorità di vigilanza sui fondi pensione, in 94 mila hanno optato per il riscatto e in 4 mila per la rendita integrativa 


Ora, potrà piacere o dispiacere, ma arrotondare le pensioni normali con versamenti aggiuntivi offre di per sé una boccata d’ossigeno al bilancio pubblico, almeno fino a quando le uscite pensionistiche integrative non verranno a pareggiare i relativi flussi contributivi in entrata. L’obiezione secondo la quale in tal modo si genererebbe un debito in capo all’Inps non regge in quanto l’integrazione sarebbe comunque calcolata a ripartizione. Del resto, il compianto ministro Padoa-Schioppa fece un’operazione analoga con il FondInps. Naturalmente, qualcuno si potrà preoccupare se si danno maggiori risorse a governi ritenuti incapaci o corrotti. Ma in democrazia nessun governo avrà mai consensi unanimi.

 

La presidenza dell’Inps ha preannunciato un fondo pensioni dell’Istituto di nuovo conio, diverso dal FondInps che investa in titoli di stato nazionali. E’ positivo che l’Inps cerchi di immaginare qualcosa di nuovo, ma si possono nutrire dubbi sull’utilità di un altro fondo pensioni. La sua matrice pubblica non ne muterebbe la natura di fondo a capitalizzazione che, come tale, nulla aggiunge alle finanze dello stato. L’indirizzo di investimento nel debito pubblico italiano, d’altra parte, non porterebbe grandi vantaggi ai sottoscrittori ai tempi dei tassi zero e avrebbe un effetto difensivo assai limitato per il debito pubblico: niente a che vedere con gli interventi della Bce. E tuttavia l’esigenza di connettere almeno una parte del risparmio previdenziale al ciclo degli investimenti in Italia, andando oltre l’attuale e già elevata propensione verso i titoli del debito pubblico, rimane seria e fondata. La risposta potrà forse essere ricercata non solo nella maggior potenza di fuoco del bilancio statale ma anche nel potenziamento delle emissioni di obbligazioni non garantite dallo stato e tuttavia lanciate da un soggetto too big to fail, e cioè dalla Cassa depositi e prestiti. Tali obbligazioni potrebbero essere destinate a finanziare opere pubbliche di particolare rilievo e magari anche servizi di welfare. Il loro rendimento, trovando una modalità accettabile dalla Commissione europea, potrebbe essere irrobustito da un certo favor fiscale ove il sottoscrittore sia un fondo pensione o una cassa previdenziale privata. Non sarebbe un’invenzione: già accade da ottant’anni per le obbligazioni delle Public Authority americane che, da Roosevelt ai giorni nostri, sono attivissime nelle infrastrutture e nel welfare.

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