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Due idee per cambiare l’Italia

Stefano Firpo e Andrea Tavecchio

Rilanciare la produttività abbassando subito il carico fiscale su chi lavora e riformando l’Irpef. Spunti per lasciarsi alle spalle i due tabù che tengono in ostaggio il nostro paese

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Prendiamo per buona l’analisi che Luca Ricolfi fa nel suo ultimo libro “La società signorile di massa” (La Nave di Teseo) in cui spiega, tra le altre cose, come in Italia il combinato disposto di ricchezza accumulata, alte percentuali di inoccupati e giovani NEET (“Neither in Employment nor in Education or Training”), scarsa natalità e rapido invecchiamento della popolazione, porti a una condizione di apparente benessere generalizzato sostanzialmente dovuta alla presenza di immigrati sottopagati e alle attese di eredità di una parte importante della popolazione più giovane. Ricolfi, nel suo libro, porta l’esempio di un trentenne, Jacopo, che non trovando niente di adeguato ai suoi studi e aspirazioni passa da un lavoretto all’altro e nel frattempo gode delle possibilità che gli danno i genitori di bighellonare, avendo a disposizione un pochino di soldi e tanto tempo libero. Jacopo non costruirà niente e non lascerà niente ai figli (se ne avrà mai). Ma non gli importa più di tanto perché, protetto da una bolla in cui passa il tempo tenendo un blog e postando paesaggi su Instagram, sa che presto o tardi avrà la sua (piccola) eredità e se la caverà. 

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Prendiamo per buona l’analisi che Luca Ricolfi fa nel suo ultimo libro “La società signorile di massa” (La Nave di Teseo) in cui spiega, tra le altre cose, come in Italia il combinato disposto di ricchezza accumulata, alte percentuali di inoccupati e giovani NEET (“Neither in Employment nor in Education or Training”), scarsa natalità e rapido invecchiamento della popolazione, porti a una condizione di apparente benessere generalizzato sostanzialmente dovuta alla presenza di immigrati sottopagati e alle attese di eredità di una parte importante della popolazione più giovane. Ricolfi, nel suo libro, porta l’esempio di un trentenne, Jacopo, che non trovando niente di adeguato ai suoi studi e aspirazioni passa da un lavoretto all’altro e nel frattempo gode delle possibilità che gli danno i genitori di bighellonare, avendo a disposizione un pochino di soldi e tanto tempo libero. Jacopo non costruirà niente e non lascerà niente ai figli (se ne avrà mai). Ma non gli importa più di tanto perché, protetto da una bolla in cui passa il tempo tenendo un blog e postando paesaggi su Instagram, sa che presto o tardi avrà la sua (piccola) eredità e se la caverà. 

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Senza produttività non può esserci difesa della nostra ricchezza e la stagnazione non può che trasformarsi in declino


 

 

Questa lettura della società italiana, oltre ad essere un pugno nello stomaco per tutti quelli che credono nel lavoro, al lettore che si occupa di fisco e di impresa fa immediatamente pensare a cosa fare per cercare di evitare che si finisca nel burrone del declino, come profetizza Ricolfi nell’ultimo capitolo. Qui le osservazioni principali che si possono fare sono due. Una legata a tematiche fiscali, l’altra più al problema della produttività che in Italia ristagna de vent’anni. Due tematiche quella del fisco e della produttività che forse hanno non pochi punti di interconnessione.

 

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Partiamo dal problema della produttività. In una società opulenta di massa dove si lavora in pochi, si consuma molto grazie alla ricchezza accumulata nel passato e si cresce pochissimo, possiamo pensare di evitare un inesorabile declino competitivo e sociale solo se sapremo continuare a generare saldi positivi di bilancia commerciale attraverso esportazioni competitive, in particolare in quei settori e nicchie aperte alla competizione globale dove deteniamo ancora un vantaggio comparato. Pensiamo, ad esempio, alla meccanica strumentale che da sola vale quasi 60 mld di saldo commerciale positivo. Grazie a questa articolata filiera, il nostro paese, povero di risorse energetiche, può pagare la sua costosa bolletta energetica. Ciò significa che, anche se il nostro pil ristagna, dobbiamo continuare a rimanere competitivi sui mercati di sbocco internazionali (dove peraltro abbiamo importanti spazi di sviluppo esportando soltanto il 30 per cento del nostro pil quando la Germania ne esporta il 50 per cento). Quindi il nostro benessere se vuole evitare il declino e la decrescita involutiva deve alimentare la dinamica della produttività. Le cicale, come Jacopo, hanno bisogno di tante formichine operose nei settori esposti alla competizione internazionale affinché il loro stile di vita “opulento” possa essere sostenibile nel tempo. 

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Il sistema fiscale italiano appare inadeguato a intercettare la reale capacità contributiva di una società opulenta di massa


 

 

Purtroppo, la dinamica della nostra produttività del lavoro nel periodo ultra ventennale 1995-2018 ha segnato un tasso di crescita di appena lo 0,4 per cento annuo, una delle peggiori performance fra i paesi appartenenti al mondo industrializzato, mentre la dinamica della produttività del capitale ha fatto persino peggio essendo addirittura regredita dello 0,7 per cento all’anno. Questo quadro già di per se sconfortante è poi aggravato da un’ulteriore nota negativa: ovvero il contributo nullo, sempre nel periodo considerato, della produttività totale dei fattori (TFP) che è il metro che serve  a misurare la capacità di incorporare i salti tecnologici e le innovazioni organizzative. Per semplificare, è come se il progresso tecnico, così tumultuoso degli ultimi 20 anni, non ci avesse nemmeno sfiorato. Il ristagno della produttività è quindi un problema tanto centrale per il nostro futuro quanto spesso dimenticato nel dibattito politico e negli obiettivi delle policy. Senza produttività non può esserci difesa della nostra ricchezza e la stagnazione in cui versa il nostro paese da diverso tempo non può che trasformarsi in declino.

 

Senza una dinamica positiva della produttività non potremmo permetterci di rimanere per sempre signori, come ci ricorda anche Ricolfi. Come rilanciare dunque la produttività nel nostro paese? Sotto questo profilo il fisco può fare molto, favorendo gli investimenti a maggior contenuto di rischio, di innovazione e tecnologia come si è fatto con il Piano Industria 4.0. Vale la pena ricordare come nel biennio di piena operatività del piano (2016 e 2017), la produttività del lavoro è cresciuta dell’1,2 per cento, quella del capitale del 2,5 per cento e la TFP del 2,1 per cento. Ma non basta. Occorre un sistema fiscale più equo, semplice e moderno capace di riequilibrare i pesi contributivi, riducendo il carico fiscale sul lavoro e sui ceti produttivi, liberando risorse a favore degli investimenti pubblici perché forte sembra essere la correlazione fra dinamica stagnante della produttività e politiche di contenimento del deficit attraverso la riduzione della spesa pubblica in conto capitale.

 

Inoltre è chiaro come il sistema fiscale italiano – in cui il carico fiscale pesa molto sopra il lavoro e poco sui consumi – appaia inadeguato ad intercettare la reale capacità contributiva di una società opulenta di massa.  Se vogliamo rompere il circolo vizioso in cui siamo caduti, con manovre condannate a occuparsi di coperture attraverso moltitudini di nuove micro tasse e vagheggiando manette agli evasori (ricordate le grida manzoniane?), anziché di come modernizzare il paese, bisogna lasciarsi alle spalle paure e tabù per riformare l’Irpef, abbassando il carico fiscale su chi lavora, e mettere mano a una revisione della tassazione dei consumi, anche toccando in modo selettivo l’IVA. 

 


L’imposta patrimoniale c’è già sia sui risparmi (imposta dello 0,2% annuo sulla ricchezza finanziaria) sia sugli immobili (l’Imu)


 

 

E per allargare la platea dei contribuenti bisogna mettere mano alla dichiarazione dei redditi delle persone fisiche in modo che questa non afferisca (quasi) al reddito, ma dia una visione anche della situazione patrimoniale dei contribuenti, come avviene nei principali occidentali. Il nucleo di una vera riforma dell’Irpef sta nell’estensione progressiva del patto fiscale. Tecnologia e dati, fatturazione e pagamenti elettronici, scambio di informazioni automatici e su richiesta tra paesi, dialogo tra banche dati e l’Agenzia delle entrate, normative come la cosiddetta “DAC6” – entrata in vigore il primo gennaio di quest’anno – che obbligano intermediari finanziari e professionisti a denunciare chi mette in pratica operazioni potenzialmente elusive vanno tutte nella stessa direzione.

 

Eludere ed evadere le tasse sarà sempre più complesso ed è venuto il tempo di estendere il patto fiscale. Un profilo complessivo del contribuente e della sua affidabilità è tecnologicamente possibile ma, grazie agli incroci di coerenza fra reddito e patrimonio, ridurrebbe evasioni, elusioni e finti poveri. Questo passo verso una modernizzazione della dichiarazione dei redditi, che sia in grado di fotografare meglio una “società signorile di massa”, deve però essere in nessun modo un preambolo per una imposta patrimoniale. In Italia l’imposta patrimoniale c’è già sia sui risparmi ed è l’imposta di bollo dello 0,2% annuo sulla ricchezza finanziaria, mentre sugli immobili c’è l’Imu che in tanti casi è pesante. 

 


Per dare fiato alla parte produttiva occorre tassare meno il lavoro senza vagheggiare più su imposte di successione e di donazione 


Se di patrimoniale non si deve parlare, si possono pensare piccoli interventi di manutenzione per evitare arbitraggi, ma con attenzione per non spaventare la società opulenta di massa. Non ci possiamo permettere un nuovo stallo nei consumi e negli investimenti come avvenuto anche in anni recenti. Tra l’altro chi ha immobili – tranne che nel centro di poche città italiane come Milano o Roma – ne ha già vissuto sulla sua pelle il deprezzamento del valore negli ultimi dieci anni. E chi ha un portafoglio titoli, in epoca di tassi d’interesse negativi su impieghi a breve e all’uno per cento sui Btp a 10 anni, non ha molti margini per pagare di più di quello che paga oggi con l’imposta di bollo. Per riuscire a dare fiato alla parte produttiva che mantiene la parte “parassitaria” nelle società signorili di massa bisogna tassare meno il lavoro, di più i consumi (ma senza esagerare), e non bisogna vagheggiare sull’aumentare le imposte di successione e donazione. 

 

Per tre motivazioni. La prima che l’evidenza empirica dimostra come il gettito da imposte di successione e donazione fosse modesto anche prima del radicale abbassamento di queste imposte che, anche se con alcuni cambiamenti, dura da vent’anni. Il secondo è che una direttiva europea limita la possibilità dei paesi membri di tassare le successioni dei business di famiglia e quindi si potrebbe alzare l’imposta di successione in modo parziale e selettivo ed andando probabilmente contro anche al principio di capacità contributiva.

 

La terza, forse la più importante come si capisce bene dalla lettura del libro di Ricolfi, è che parlando di nuove e più alte imposte di successione si spaventerebbe una parte importante di paese. “Jacopo” e i suoi genitori non hanno tante qualità forse, ma se si spaventassero e non consumassero più per il resto del paese, quello produttivo, sarebbe un bel guaio. Tanto il loro patrimonio è, in realtà, consumi futuri e non accumulazione improduttiva di capitale.

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