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L'utile esempio post statuale catalano e la Lombardia già glocal

Alessandro Aleotti e Sergio Scalpelli

In Catalogna come in Lombardia la questione più sentita non è quella di creare una nuova patria nazionale, ma di fuoriuscire dall'inutilizzabile gabbia statuale che produce un inutile aggravio di costi per i cittadini

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Diciamolo, se invece del semi maresciallo Rajoy ci fosse stato un qualunque presidente del Consiglio italiano, in Catalogna si sarebbe svolto un regolare referendum consultivo e poi, qualunque fosse stato il risultato, nulla sarebbe successo, lasciando che ogni cosa andasse avanti al ritmo lento dell’italica inerzia politica. Invece dobbiamo paradossalmente ringraziare gli errori di una politica spagnola sempre pronta a drammatizzare e a sguainare le sciabole, se ora stiamo assistendo a una fenomenale accelerazione di un processo che, sul piano storico, è attivo almeno dallo spartiacque simbolico del 1989 che ha ridefinito la geopolitica globale: la progressiva dissoluzione della statualità nazionale in Europa per come l’abbiamo conosciuta nel ’900. Se, infatti, è a tutti evidente che nella nostra quotidianità abbiamo molto a che fare sia con il globale (la rete, le relazioni, la mobilità)  sia con  il locale (il posto dove la sera andiamo a dormire) e nulla, salvo le tasse,  ci lega alla statualità nazionale, invece nella lettura politico-istituzionale questa evidenza fatica a mostrarsi, poiché gli ordinamenti e i poteri che ne conseguono sono ancora del tutto conformi alla matrice novecentesca.

 

La questione catalana, quindi, ci pone la grande opportunità di riavvicinare la politica al corso ineluttabile della storia: un’occasione che capita di rado e che, perciò, non dovrebbe essere trascurata. Naturalmente, quando la politica novecentesca guarda alla vicenda catalana, lo fa con il proprio sguardo datato e finisce per inquadrare la questione nell’unico modo conosciuto, la stagione premoderna delle piccole patrie indipendenti. In realtà, in Catalogna – esattamente come in Lombardia – la questione più sentita non è quella di creare una nuova patria nazionale, ma di fuoriuscire dalla ormai inutilizzabile gabbia statuale che non riesce più a dare protezione, identificazione e produce un inutile aggravio di costi per i cittadini. E’ ovvio che il fisco sia la miccia di questo processo, ma l’esplosivo non è costituito dall’egoismo materiale, bensì dall’esigenza di vivere in un quadro istituzionale che meglio rappresenti la realtà che si dipana tra globale e locale senza più passare dalla statualità nazionale. Sarebbe oltremodo opportuno che la vicenda catalana contagiasse anche il nostro suolo, a partire dall’appuntamento lombardo e veneto del 22 ottobre. Una volta liberata dal canone politico leghista e, soprattutto, dal passatismo della sua iconografia, la questione dell’autonomia lombardo-veneta si può, infatti, candidare ad essere il modello di una dimensione istituzionale in grado di dialogare con la dimensione europea contemporanea. Ovviamente, l’Europa resta – e diviene sempre più – il soggetto storico e istituzionale di riferimento, ma questo non deve rinchiudere l’istituzione europea nella semplice raccolta delle vecchie statualità. In futuro, non dobbiamo scandalizzarci o stupirci se, nel contesto europeo, conviveranno vecchi stati nazionali con nuove regioni indipendenti, forti città-stato metropolitane con altre comunità istituite su base territoriale (e, perché no, anche funzionale).

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La storia va in questa direzione e la politica ha l’occasione di mettersi all’altezza di questa sfida, ma deve prima di tutto esserne consapevole e poi capire che, sul piano dell’immaginario condiviso, la partita può essere vinta solo da una squadra all’altezza del Barcellona di Messi, mentre se scende in campo l’Atalanta di Petagna, finisce con una bella rustida sul prato di Pontida.

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