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GranMilano

La candidatura del sindaco-vescovo e il modello centrodestra da trovare

Maurizio Crippa

La vittoria alle elezioni di primavera per Sala non è mai scontata, in una città dove la sinistra è stata egemone ma in cui il centrodestra nello schema della Seconda Repubblica è stato a lungo vincente nella sua versione riformista

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Scontata com’era la ricandidatura a sindaco, il 7 dicembre Beppe Sala ha giocato, con il video ai margini della cerimonia degli Ambrogini d’oro, la carta a effetto della candidatura anche ad arcivescovo di Milano, sulle orme di Sant’Ambrogio, “che è stato uomo delle istituzioni sia laiche che religiose”. Si perdonerà la battuta, del resto offerta su un vassoio d’argento, ma la scelta del giorno e il richiamo insistito, e pertinente, al santo vescovo parlano di qualcosa di più profondo e (politicamente) ragionato che non di un semplice gioco di comunicazione in grado sfruttare l’empatia ambrosiana. Del resto la sera prima l’arcivescovo Mario Delpini, che problemi di elezioni non ne ha, per il suo tradizionale Discorso alla città ha scelto un titolo di responsabilità collettiva, “Tocca a noi, tutti insieme”, sottolineando però che “Milano ha visto momenti assai più drammatici” e che oggi oltre al Covid c’è una “emergenza spirituale” da affrontare, uno “smarrimento del senso dell’insieme che riduce in frantumi la società e l’identità personale”.

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Scontata com’era la ricandidatura a sindaco, il 7 dicembre Beppe Sala ha giocato, con il video ai margini della cerimonia degli Ambrogini d’oro, la carta a effetto della candidatura anche ad arcivescovo di Milano, sulle orme di Sant’Ambrogio, “che è stato uomo delle istituzioni sia laiche che religiose”. Si perdonerà la battuta, del resto offerta su un vassoio d’argento, ma la scelta del giorno e il richiamo insistito, e pertinente, al santo vescovo parlano di qualcosa di più profondo e (politicamente) ragionato che non di un semplice gioco di comunicazione in grado sfruttare l’empatia ambrosiana. Del resto la sera prima l’arcivescovo Mario Delpini, che problemi di elezioni non ne ha, per il suo tradizionale Discorso alla città ha scelto un titolo di responsabilità collettiva, “Tocca a noi, tutti insieme”, sottolineando però che “Milano ha visto momenti assai più drammatici” e che oggi oltre al Covid c’è una “emergenza spirituale” da affrontare, uno “smarrimento del senso dell’insieme che riduce in frantumi la società e l’identità personale”.

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Riflessioni che, inevitabilmente, possono trovare un’eco anche nella visione dei problemi di Milano che il sindaco ha evocato per sostanziare il suo annuncio. Ad esempio il riferimento al “metodo” di Sant’Ambrogio nel guidare la città cercando di “creare comunione” e non di “alimentare divisioni” indica l’idea di un governo cittadino pacato, inclusivo come usa dire, e in cui la crescita economica – che fino al 2019 è stata poderosa e che Sala crede ricomincerà presto – non vada tenuta separata dall’investimento sul welfare, sui servizi, sulla riqualificazione urbana delle periferie e nel sistema dei trasporti.

 

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Su queste priorità, la sindacatura che si chiude qualcosa di buono ha fatto, poteva forse fare di più e meglio. Ma il problema politico, e poi lasceremo finalmente da parte sant’Ambrogio, è un altro. Creare una città comune, tenere cucito un tessuto urbano e sociale non è un “problema” dei santi, o dei sindaci con targa progressista. Chiunque sarà il prossimo primo cittadino – ed esattamente come è stato per quelli dei decenni passati – la guida di Milano non può avere chissà quali altre priorità: la crescita nella giustizia, la sicurezza che è frutto innanzitutto delle opportunità, la capacità di trasformazione (Milano è una delle città europee che più si è trasformata negli ultimi vent’anni dal punto di vista urbanistico, architettonico, logistico) sono il Dna stesso del modello Milano. Si può cercare di realizzare questo modello compiendo altre scelte (un nodo della campagna elettorale sarà ancora la sicurezza) oppure valorizzando di più o di meno il rapporto con il settore privato (Sala si è fatto portavoce di una proposta del Pd per rifare la Sanità regionale stringendo gli spazi alla sanità privata) o al modello sussidiario (che però piace molto alla chiesa e a kingmaker influenti come le fondazioni). Ma la traiettoria è quella.


 

Ed è qui che si può innestare una considerazione più strettamente politica a riguardo del “discorso di sant’Ambrogio” di Beppe Sala. Che ha anche una piccola valenza nazionale. La vittoria alle elezioni di primavera non è mai scontata, in una città dove la sinistra è stata a lungo egemone ma in cui il centrodestra nello schema della Seconda Repubblica è stato a lungo vincente (quattro legislature) nella sua versione riformista. Ma appunto, il centrodestra è non mai stato vincente nella versione populista e a tendenza antisistema (il “borgomastro” Formentini era all’interno del patto tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi) e la Lega, in città, non ha mai dominato. Ora ci sono i numeri elettorali delle periferie, ovviamente, ma senza il voto moderato le possibilità di battere Sala diminuiscono. Stefano Parisi riuscì quasi nell’impresa, ma appunto puntando su obiettivi di governo speculari a quelli di Sala. Oggi il centrodestra deve trovare un candidato che possa giocare credibilmente la carta del pragmatismo ambrosiano, con tutte le sue proiezioni internazionali ed europee. E magari potrebbe vincere, Sala non è invincibile. Ma un candidato che incarni una visione in qualche modo sovranista di Milano, cioè nessuna visione di Milano, o che sia frutto di una rinuncia a giocarsela (potrebbe essere la tentazione di Forza Italia) hanno poco senso. E sarebbe un peccato per tutta la città.

 

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