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GranMilano

Per il lavoro del futuro servono soft skill

Mariarosaria Marchesano

Il capitale psicologico e sociale delle persone si sta rivelando fondamentale in un mercato del lavoro che richiede cambiamenti radicali. Non bastano le competenze scolastiche. Una ricerca analitica

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Un evento come la pandemia mette alla prova le persone anche nel proprio lavoro facendo venir fuori il carattere, la tenuta psicologica e la stabilità emotiva. Non si sta parlando, certo, della pressione a cui sono sottoposti medici e infermieri negli ospedali, ma della complessità da gestire ogni giorno, della capacità di stare su più fronti e di raggiungere risultati in condizioni di emergenza. Questa attitudine non si impara nelle scuole o nelle università, che sono più concentrate a trasferire conoscenze e nozioni che a forgiare il carattere, ma fa parte di un patrimonio personale e di background familiare, quello che lo studioso James Heckman chiama “non cognitive skills”, cioè tratti della personalità come creatività, flessibilità, capacità critica, problem solving, resilienza, capacità di lavorare in gruppo.

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Un evento come la pandemia mette alla prova le persone anche nel proprio lavoro facendo venir fuori il carattere, la tenuta psicologica e la stabilità emotiva. Non si sta parlando, certo, della pressione a cui sono sottoposti medici e infermieri negli ospedali, ma della complessità da gestire ogni giorno, della capacità di stare su più fronti e di raggiungere risultati in condizioni di emergenza. Questa attitudine non si impara nelle scuole o nelle università, che sono più concentrate a trasferire conoscenze e nozioni che a forgiare il carattere, ma fa parte di un patrimonio personale e di background familiare, quello che lo studioso James Heckman chiama “non cognitive skills”, cioè tratti della personalità come creatività, flessibilità, capacità critica, problem solving, resilienza, capacità di lavorare in gruppo.

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Secondo Heckman queste soft skills appaiono nei primissimi anni di vita, condizionano l’apprendimento e le abilità lavorative e possono cambiare in maniera significativa nel corso dell’esistenza di un individuo. Ebbene, questo bagaglio, che è una sintesi di capitale psicologico e sociale delle persone, si sta rivelando fondamentale in un mercato del lavoro che richiede cambiamenti radicali: entro il 2030, infatti, più di un miliardo di lavoratori dovranno riqualificarsi secondo i dati emersi nell’ultimo World economic forum e se questo non avvenisse sarebbero a rischio 11,5 trilioni di dollari di pil nei prossimi dieci anni con il 70 per cento dei lavoratori disoccupato.

 

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Questa prospettiva ha spinto il professor Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e ordinario di statistica all’Università di Milano-Bicocca a studiare cosa succede in Italia su questo fronte, arrivando alla conclusione che le soft skill o non cognitive skill – che lui chiama la “materia oscura” che muove lo sviluppo – debbano essere potenziate anche da programmi scolastici mirati, esperienza già avviata con successo dalla provincia autonoma di Trento che ha commissionato la ricerca. “Da qui ai prossimi cinque anni, circa un terzo delle competenze richieste in ambito lavorativo sarà legato ad abilità che oggi sono ritenute ancora marginali – dice Vittadini – Le professioni del futuro richiederanno competenze trasversali come la capacità di risolvere problemi o conflitti, di collaborare e lavorare in gruppo, di comunicare in modo efficace, di resistere ai fattori ambientali come stress e, magari, un cattivo ambiente di lavoro.

 

Per questo motivo, è importante studiare e analizzare quanto le non cognitive skills possano essere educate e potenziate in ambito scolastico, sociale e lavorativo”. Il confronto avvenuto durante un webinar tra Vittadini e la vice ministra della Pubblica Istruzione, Anna Ascani, ci fa capire, però, che forse l’Italia non è ancora pronta a recepire questa indicazione. “Io non farei una distinzione netta tra tipi di competenze – parlerei più di competenze di cittadinanza che vuol dire un quadro unico che tiene insieme tutte le conoscenze dell’individuo”.

 

La vice ministra, comunque, ha ammesso che oggi l’occupabilità delle persone è influenzata da fattori che non sono nozioni e competenze tecniche acquisite nel percorso formativo e convenuto che “la scuola deve cambiare diventando un luogo di elaborazione e organizzazione di conoscenze che vengono acquisite anche in modo confuso attraverso una molteplicità di canali. Ma questo potrà avvenire solo attraverso una nuova formazione dei docenti che il ministero ha programmato di fare utilizzando i fondi europei”.

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Dunque, un focus sulle capacità non cognitive dell’individuo sembra ancora lontano dall’essere recepito nell’istruzione pubblica e si vede, del resto, da come sono strutturate le valutazioni anche di università e master basati spesso su algoritmi. Eppure, nel mondo delle imprese il capitale umano è sempre più considerato come “un elemento capace di garantire, insieme alla tecnologia, la tenuta del nostro paese” dice Fabio Benasso, presidente e amministratore delegato di Accenture Italia. Per Benasso un’azienda deve costruire la propria offerta di lavoro sulla “combinazione tra tecnologia e ingegno umano” e investire sulle caratteristiche delle persone come creatività, curiosità, empatia, agilità, ascolto, inclusione.

 

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Aggiunge Marco Travaglia, amministratore delegato di Nestlé Italia: “La situazione che stiamo vivendo ha già cambiato radicalmente il modo di lavorare. L’ufficio non sarà più un posto in cui lavorare, ma soprattutto un luogo in cui ricevere competenze sempre meno tecniche”. Insomma, il mondo delle imprese sembra sempre più propenso a selezionare il personale in base al bagaglio caratteriale e umano anche se, a volte, leggendo gli annunci di lavoro su Linkedin sembra ancora prevalere nettamente la preferenza per le conoscenze tecniche, forse perché rappresenta il criterio più oggettivo per i recruiter che non vogliono correre il rischio di assumere un creativo impreparato.

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