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A Milano il Comune paga un conto da 600 milioni per il Covid

Mariarosaria Marchesano

Trasporto pubblico, dividendi delle partecipate, occupazione del suolo pubblico e tasse di soggiorno: ecco quanto pesano le mancate entrate nelle casse pubbliche. Parla l'assessore Roberto Tasca

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L’effetto pandemia sul bilancio del Comune di Milano è pari a 624 milioni di euro di entrate correnti in meno nel 2020 rispetto al 2019, così suddivise: circa 300 milioni dai biglietti per il trasporto pubblico; 160 milioni da infrazioni del codice della strada; 80 milioni dai dividendi dalla Sea, la società che gestisce gli aeroporti di Linate e Malpensa; 42 milioni da imposte di soggiorno, 25 milioni da canoni per l’occupazione del suolo pubblico; 20 milioni da passaggi e soste nella Ztl. Il quadro completo sarà presentato domani durante una riunione di giunta presieduta dal sindaco Beppe Sala e nei prossimi giorni in Consiglio comunale.

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L’effetto pandemia sul bilancio del Comune di Milano è pari a 624 milioni di euro di entrate correnti in meno nel 2020 rispetto al 2019, così suddivise: circa 300 milioni dai biglietti per il trasporto pubblico; 160 milioni da infrazioni del codice della strada; 80 milioni dai dividendi dalla Sea, la società che gestisce gli aeroporti di Linate e Malpensa; 42 milioni da imposte di soggiorno, 25 milioni da canoni per l’occupazione del suolo pubblico; 20 milioni da passaggi e soste nella Ztl. Il quadro completo sarà presentato domani durante una riunione di giunta presieduta dal sindaco Beppe Sala e nei prossimi giorni in Consiglio comunale.

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“Questa è la situazione nella massima trasparenza – dice al Foglio Roberto Tasca, assessore al Bilancio e Demanio – E aggiungo che il governo ha ristornato meno di 400 milioni. Il resto è tutto a carico del municipio che deve fare un grande sforzo finanziario per garantire a una città come Milano la struttura dei servizi a cui è abituata”. L’amministrazione meneghina paga, dunque, un prezzo salato al Covid-19, ma è anche uno dei primi comuni a fare chiarezza sui suoi conti. Le cifre dei mancati incassi sono già uscite qua e là in relazione alle singole voci, ma vederle tutte insieme fa un certo effetto, soprattutto sapendo che l’orizzonte è incerto anche per il 2021.

 

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E Tasca non si nasconde dietro a un dito quando dice che una ripresa piena delle attività della città si può realisticamente prevedere solo a partire da inizio 2022. In questo quadro, che probabilmente non è molto diverso da tanti altri comuni, si inserisce quella che si potrebbe definire la “variabile Galleria”, intesa come Galleria Vittorio Emanuele, il salotto di Milano, una delle vetrine commerciali più prestigiose del mondo, tornata deserta quando per la Lombardia è stata decretata la zona rossa. A parte i ristoranti come Cracco e lo storico Savini, che operano in parte con l’asporto, le librerie Rizzoli, Feltrinelli e Bocca, lasciate aperte dal decreto del governo e il celebre tabaccaio Noli, famoso per i sigari cubani, la Galleria è in questo momento lo specchio di una Milano spenta che aspetta con impazienza il passaggio alla zona arancione e poi magari a quella gialla sotto le feste di Natale, quando i negozi, forse, potranno riaprire riaccendendo le luci e la voglia di una passeggiata e di una sosta al Camparino che ha scelto di “sospendere l’attività fino a data da destinarsi”.

 

Nel frattempo, il Comune di Milano, che è il proprietario della gran parte degli immobili commerciali della Galleria (una sessantina in tutto considerando anche quelli della cintura esterna) ha deciso di concedere una dilazione di 36 mesi per il pagamento dei canoni di affitto. “Dovrebbe essere un lasso di tempo sufficiente ai negozianti per rimettersi in pista con la riapertura e la ripresa delle attività”, dice Tasca spiegando che questo sistema consente per adesso un impatto neutro sul bilancio comunale. E in futuro? Lo scorso anno il Comune ha incassato 42 milioni dai negozi della Galleria, un risultato di cui Tasca è sempre andato fiero perché riflette una gestione con logica di mercato di un bene pubblico che fino al 2010 rendeva si è no 8-10 milioni all’anno perché i canoni non venivano mai adeguati e i negozianti erano sempre gli stessi.

 

La promozione di gare internazionali per assegnare le boutique più in vista ha scatenato la competizione tra le grandi griffe della moda disposte a pagare fino a cinque-sei milioni all’anno per una vetrina, mentre via via che scadevano tutti i vecchi contratti venivano rinnovati al rialzo oppure assegnati a nuovi entranti disposti a pagare di più. Ebbene, tutto questo gran movimento, che come puntualizza Tasca “è stato da noi stimolato esclusivamente nell’interesse pubblico, per incrementare numero e qualità dei servizi ai milanesi mica per pagarmi dei bonus”, rischia di aumentare il grado di incertezza alla luce della crisi Covid. Le perdite che saranno generate dalle chiusure si aggiungono al malcontento diffuso tra i commercianti per i rincari degli affitti.

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Sono 11 i ricorsi al Tar delle botteghe storiche, tra chi si è opposto alle maggiorazioni e chi, invece, contesta il requisito dei 50 anni di presenza in Galleria per ottenere il rinnovo del contratto. Ma l’incognita più grande è rappresentata dall’alta moda. Solo due settimane prima del lockdown di marzo una agguerrita competizione messa in piedi dal Comune costringeva due brand italiani come Armani e Versace, i cui contratti scadono alla fine di quest’anno, a cercarsi altre location (Armani è andato al posto della Tim, Versace attende nuovi bandi) per far posto alla francese Dior e a Fendi, disposte a sborsare, rispettivamente, 5 milioni e 2,4 milioni all’anno per le loro vetrine nel salotto milanese, canoni assegnati dopo rilanci di 50 mila euro ogni tre minuti secondo una procedura inedita.

 

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Un esempio virtuoso, certamente, di gestione privatistica di immobili comunali. Ma cosa ne sarà di questi contratti, adesso? Dior e Fendi hanno ancora voglia di sbarcare a Milano considerando la grande crisi che sta vivendo il settore del lusso? “Non ho alcuna evidenza che questi soggetti intendano recedere dal contratto. Per quanto mi riguarda Dior e Fendi subentreranno a gennaio e pagheranno regolarmente l’affitto al Comune. Siamo inoltre fiduciosi anche sul contenzioso che riguarda gli altri negozi. Finora il Tar ci ha dato quasi sempre ragione. E per questo i canoni previsti dalla Galleria sono stati iscritti regolarmente in bilancio”. In futuro si vedrà.

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