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GranMilano

Nella moda si respira "N’aria e’ primmavera"

Fabiana Giacomotti

Sì, le sfilate son tornate. E quasi tutto bene, online permettendo. Ecco cosa si è imparato dal Covid

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Per la prima volta, la gente per strada le osserva e non sbuffa più; anzi, perfino sorride, compiaciuta. Le auto blu con l’insegna “Camera Nazionale della Moda” sulla fiancata sono tornate a parcheggiare in modo creativo sui marciapiedi di fronte alle showroom, i teatri, gli spazi, creativi anche loro, in cui i nomi vecchi e nuovi della moda sfilano. Fisicamente, anche, e pure in buon numero; ventitré su sessantaquattro previste. Torna la moda a Milano e, per parafrasare il titolo di una strepitosa mostra sulla Belle Epoque che apre oggi a palazzo Zevallos Stigliano a Napoli, curata dal nostro diletto Fernando Mazzocca, è come se fosse arrivata “n’aria e’ primmavera”, a prescindere perfino dal fatto che sì, si presentano le collezioni per la prossima estate e dunque la primavera si immagina.

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Per la prima volta, la gente per strada le osserva e non sbuffa più; anzi, perfino sorride, compiaciuta. Le auto blu con l’insegna “Camera Nazionale della Moda” sulla fiancata sono tornate a parcheggiare in modo creativo sui marciapiedi di fronte alle showroom, i teatri, gli spazi, creativi anche loro, in cui i nomi vecchi e nuovi della moda sfilano. Fisicamente, anche, e pure in buon numero; ventitré su sessantaquattro previste. Torna la moda a Milano e, per parafrasare il titolo di una strepitosa mostra sulla Belle Epoque che apre oggi a palazzo Zevallos Stigliano a Napoli, curata dal nostro diletto Fernando Mazzocca, è come se fosse arrivata “n’aria e’ primmavera”, a prescindere perfino dal fatto che sì, si presentano le collezioni per la prossima estate e dunque la primavera si immagina.

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Il comparto della moda viaggia su un calo di fatturato fra il 30 e il 40 per cento ma, come dice Brunello Cucinelli, sarebbe un errore considerare questo 2020 disgraziato un anno perso: è un anno per riflettere, rimodulare il sistema, prepararsi a fare meglio, tenere duro per non licenziare nessuno e non strozzare i fornitori. Pagare il giusto, rinunciando a qualcosa, regalando alle associazioni il sovrappiù, il non venduto, ma ben impacchettato e infiocchettato, perché sembri il dono che è, e non carità. Oggi sfila, virtualmente, la prima collezione che Miuccia Prada firma con Raf Simons. Saremmo corsi fino alla Fondazione per vederla di persona, niet: ci consoliamo con l’invito, in elegante cartoncino, con il QR code, consegnato a casa. Molta attesa per Giorgio Armani pop-chic in televisione e non solo sui social, batticuore per Valentino, alla sua prima passerella milanese da sempre perché Parigi si preannunciava un disastro di contagi e cattiva organizzazione già un mese fa (negli anni della gestione Marzotto, a Milano venivano presentate le collezioni uomo, e Valentino Garavani si affacciava in passerella di malavoglia). Molta felicità per il ritorno di Krizia, marchio cinese ormai da anni, che ha trasferito gli uffici da via Manin in corso Venezia ma ha recuperato molti degli stilemi che resero grande Mariuccia Mandelli quarant’anni fa: sono tornati gli oversize, che “fanno protezione” contro i tempi difficili, dunque è tornata anche la maglia (bellissima quella punto inglese di Cucinelli, addirittura in total look gonna più top) e dunque preparatevi a indossare cose create per farci sentire meglio, e soprattutto per durare.

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Questo della durata dei capi è uno dei grandi temi del momento, e non solo perché la presidente della giuria della Mostra del Cinema di Venezia Cate Blanchett ha dato la linea e nel modo più immediato, replicando sul red carpet abiti già messi anche in anni lontani (la sua stylist è andata a recuperarli perfino da chi li aveva acquistati all’asta), ma anche perché il riciclo, il recupero del vecchio, magari riassemblato “perché ci sono fin troppi abiti su questa Terra senza bisogno di crearne di nuovi”, concetto che suona al tempo stesso esaltante e sinistro, è anche uno dei grandi filoni su cui si muove Vogue Talents, la rassegna internazionale, e dunque necessariamente digitale, guidata da Sara Maino. L’abbiamo esplorata per ore, e ci hanno molto colpito i lavori dell’olandese Duran Lantnik e di Giulia Tavani, che sotto il brand Angostura, francamente penalizzante a meno di non voler trovare posto negli scaffali di quell’altro orrore semantico che è la gintoneria, crea gioielli pazzeschi modellati sulle parti del corpo, modello maschera mortuaria di Agamennone (signorina, ci dia retta, onori la sua creatività con un brand che assomigli alla sua bravura).

C’è molto che manca, naturalmente, a questa fashion week voluta e perseguita da tutti a dispetto di tutto: per esempio il momento di scambio fra i media e i veri attori del sistema, che sono i buyer; loro, che sanno lanciare o spegnere per sempre una stella, noi della stampa non li incontriamo se non per caso o cercandoli al telefono, perché percorsi e appuntamenti sono differenziati. Non stiamo più tutti insieme, ma pochi e a gruppetti e disinfettati. Tendenzialmente in silenzio. Manca il fiatone per non perdere il “next show”, perché basta collegarsi sul sito di Camera Moda, e dunque, spesso, bisogna ricordarsi di farlo, segnarsi la sveglia sul cellulare per non essere distratti da altro. Dice Alessandro Dell’Acqua (il suo brand si chiama N21, ha dovuto lasciare il proprio nome a un produttore, anni fa) che gli “sembra sempre più urgente e necessario esplorare la possibilità di stabilire una nuova modalità della moda: i tempi, le stagioni, le tendenze devono lasciare lo spazio a un nuovo modo di narrazione”. Lui ha lavorato con molta sapienza sull’altro grande tema del momento, l’inclusione di genere e la diversità, certificando quello che, in realtà, sappiamo tutti da cinque decenni, e cioè che molto del guardaroba maschile e femminile è intercambiabile. C’è un’unica nota davvero stonata, in questa atmosfera che richiama la voglia di serenità, di semplicità e il profumo di fiori di campo, ed è il cluster in cui sono stati racchiusi i giovani creativi dell’Afro Fashion Week, che sfileranno domenica 27 come collettivo sotto il titolo “We are made in Italy - The Fab five bridge builders”. Tutto bellissimo, tutto interessante, ma se vogliamo parlare di inclusione, c’è davvero bisogno di definire questi cinque ragazzi con l’acronimo POC, cioè “people of colour”?

 

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