(foto LaPresse) 

GranMilano

Lo smart working è una grande opportunità per Milano

Mariarosaria Marchesano

La pioniera Bisconti e il prof. Corso spiegano come il lavoro a distanza può rafforzare il capoluogo lombardo 

    Cercare di contrastare la crescita del lavoro da remoto sarebbe come fermare l’acqua con un dito. E’ una tendenza mondiale di cui Milano dovrebbe approfittare per riposizionarsi con una nuova attrattività invece di rammaricarsi per il calo di fatturato di bar e ristoranti. Lo dico da milanese doc: io non vedo uno svuotamento ma uno spostamento di valore da una parte all’altra della città, dal centro alle periferie e ai piccoli comuni limitrofi, dove negozi e rivenditori di ogni tipo si stanno rivitalizzando. In questo profondo cambiamento c’è anche un tema politico che forse non è stato ancora colto”. Chiara Bisconti è presidente di Milanosport, società di servizi sportivi del Comune di Milano, dopo essere stata assessore al Benessere e al Tempo libero ai tempi della giunta Pisapia, quando, da vera pioniera, aveva avviato i primi esperimenti di lavoro agile. Parlare con lei vuol dire fare un salto in avanti nella percezione di come lo smart working (insieme con la tendenza al south working di cui il Foglio ha parlato la scorsa settimana) potrà cambiare la vita nei grandi centri urbani. E in particolare a Milano, che, dice, potrebbe diventare uno dei luoghi più ambìti per il lavoro a distanza (all’interno soprattutto di grandi gruppi) rispetto, per esempio, a città nord europee. Il che sarebbe una versione di south working su scala più ampia rispetto a quello che sta avvenendo tra Milano e sud Italia, non è così? “Esatto, lo smart working ha salvato la produttività di Milano durante l’emergenza sanitaria, ed ancora la salva visto che sono in vigore le norme per il distanziamento in ufficio; ma in giro si percepisce un certo malcontento solo perché i ristoranti stanno diminuendo il fatturato. Allora io dico: se un ristorante di Milano centro guadagnerà novecento invece che mille e allo stesso tempo uno di periferia vedrà il suo giro d’affari passare da 100 a 200 non è positivo in termini di ribilanciamento economico, sociale e territoriale?”. Per la verità, gli esercizi commerciali, la ristorazione e gli eventi stanno lamentando a Milano cali di fatturato anche del 60-70 per cento. Questo vuol dire che sta morendo un pezzo di economia cittadina, non trova? “Ma non è mica colpa dello smart working! Attenzione a non confondere la minore presenza negli uffici milanesi con la mancanza di turisti. Mi rendo conto che se si uniscono entrambe le cose, viene fuori un mezzo disastro, ma c’è una pandemia ed è normale che di stranieri ne arrivino pochi. Questo, però, è un altro tema. Io dico solo che se una parte del valore che fino a oggi si è concentrato nel centro di Milano, fino a creare un modello insostenibile in termini di congestione urbanistica e ambientale, si sposta verso altri luoghi che si ripopolano e ridiventano attraenti per le persone che ci lavorano, è un bene non un male. Così come è sbagliato vedere Milano e il sud Italia come luoghi contrapposti in cui lavorare e studiare. Lo dico con una battuta: se fossi nei panni del governo o delle istituzioni chiamerei gli impiegati di tutto il mondo proponendo l’Italia come sede di lavoro agile rispetto a paesi dove il clima è più rigido e la qualità della vita meno piacevole”. A come redistribuire questo valore e a come valutare i costi del lavoro da remoto, che in questa fase sono stati esclusivamente a carico dei lavoratori, ci dovrebbero pensare i sindacati, che, secondo Bisconti, potrebbero diventare protagonisti di un cambiamento epocale del mercato occupazionale.

     

     

    Secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano, guidato dal professore Mariano Corso, che da tempo su questo tema alimenta un vivace dibattito che appassiona comunità professionali come Linkedin, i lavoratori in smart working sono passati da 600 mila ante Covid a 6 milioni durante il lockdown (8 milioni secondo i dati della Cgil). E adesso? “La situazione è molto fluida – dice Corso al Foglio – metà delle aziende vorrebbe il rientro in ufficio ma è in difficoltà con le norme di sicurezza e metà, invece, si è organizzata con soluzioni miste consolidando modelli che stava già sperimentando prima della pandemia. Credo che passata l’emergenza avremo in maniera stabile non più di un quinto delle risorse in smart working, dato che allinea Milano al resto del mondo occidentale. E’ chiaro che questo pone un tema di riorganizzazione degli spazi e delle funzioni urbane su cui tutto il mondo si sta interrogando.

    Milano dovrebbe cogliere questa opportunità per attrarre risorse e talenti dall’estero prima che lo facciano altri paesi dell’area mediterranea, come Spagna e Portogallo”. Ma come si fa ad assecondare questo trend mantenendo una centralità urbana? La risposta potrebbe arrivare da un’evoluzione del settore immobiliare. “A Milano ci sono già tante aziende che stanno rivedendo la loro organizzazione non solo in termini di metri quadrati ma anche di qualità degli spazi – dice Pietro Martani, fondatore di Copernico, gruppo specializzato nel co-working con 100 mila metri quadrati gestiti in Italia – La nuova tendenza è l’ufficio diffuso, cioè non più il grande edificio in cui si concentrano tutti i dipendenti ma tante sedi distribuite in vari punti della città, anche all’interno di spazi di co-working, in modo da evitare un pendolarismo esasperato da e per il centro. Ma non è solo un problema di distanza. Per far tornare le persone in ufficio e attrarre talenti molte aziende tendono adesso a rendere gli ambienti più gradevoli e accoglienti”. Un po’ come se fossero delle case o dei lounge bar, appunto.