Il caso Davigo e il caso Santoro spaccano il partito delle manette

Luciano Capone

I verbali di Amara e le dichiarazioni di Avola, al momento pieni di incongruenze, mandano in tilt il fronte giustizialista. Ai tempi di Massimo Ciancimino le patacche univano, ora dividono

In questi giorni stiamo assistendo a uno spettacolo a suo modo divertente, se non si trattasse di questioni che riguardano il funzionamento della giustizia e pagine drammatiche della storia del paese. Scontri nelle procure, collasso del Csm, legami professionali e personali in frantumi, dissapori e accuse reciproche nel fronte giustizialista e dell’antimafia... e tutto a causa delle dichiarazioni eclatanti di testimoni ritenuti poco credibili. Parliamo di due vicende diverse, che però presentano alcune caratteristiche simili per le conseguenze prodotte in ambienti che marciavano compatti: il caso Amara-Davigo da un lato e il caso Avola-Santoro dall’altro.

 

 

A mandare in tilt la magistratura italiana è il plurinquisito avvocato Piero Amara, che in alcune deposizioni al pm milanese Paolo Storari ha parlato dell’esistenza di una loggia chiamata “Ungheria” che condizionerebbe il funzionamento delle istituzioni e di cui farebbero parte importanti magistrati come Sebastiano Ardita, consigliere del Csm. Le dichiarazioni di un personaggio come Amara, coinvolto nel depistaggio Eni, creano una spaccatura profonda nella procura di Milano. Storari vuole approfondire l’indagine e verificare le dichiarazioni di Amara, mentre la procura guidata da Francesco Greco tiene tutto fermo. Molto probabilmente, dai primi riscontri, i verbali di Amara sono pieni di falsità e incongruenze e il magistrato Ardita, come altre persone coinvolte, non c’entra nulla. Ma per una reazione a catena le patacche minano la fiducia sia nella procura di Milano sia nel Csm.

 

 

Come mai Greco invia a Brescia le insinuazioni (false) di Amara sui giudici del processo Eni-Nigeria che ha visto soccombere la procura con una raffica di assoluzioni, mentre tiene il freno a mano tirato sulla presunta loggia Ungheria? Non si spiega questa differenza nei tempi di reazione. E’ possibile che la procura di Milano temesse non tanto che Amara dicesse il vero, ma che dicesse il falso, e che se quindi le dichiarazioni sulla loggia fossero state smentite ci sarebbe stata una ricaduta negativa sulla sua attendibilità nel processo Eni? Chi lo sa. In ogni caso, l’inerzia di Greco ha insospettito il pm Storari che ha consegnato i verbali al consigliere del Csm Piercamillo Davigo per “autotutelarsi”, evidentemente, da un comportamento ritenuto poco lineare. La lettura delle deposizioni di Amara, che al momento hanno trovato solo riscontri negativi, deve aver turbato Davigo che, improvvisamente, ha interrotto i rapporti con il suo collega al Csm Ardita, con cui aveva un legame molto stretto: i due infatti sono i leader della corrente fondata da Davigo, Autonomia e Indipendenza, e hanno scritto insieme un libro “Giustizialisti” (con prefazione di Marco Travaglio). Davigo gestisce, come Storari, la vicenda e i verbali in maniera del tutto personalistica e al di fuori delle corrette procedure formali. Evidentemente ha poca fiducia nelle istituzioni e dà una qualche credibilità alle parole di Amara. 


Dopo aver spaccato la procura di Milano, queste dichiarazioni lacerano il Csm e la sua corrente giustizialista. Davigo prende le distanze dal suo amico di “Mani pulite” Greco e dal suo amico nel Csm Ardita. Molto diversa la reazione di Nino Di Matteo, altro componente del Csm della corrente davighiana, che quando riceve il dossier anonimo (probabilmente messo in giro dall’ex segretaria di Davigo) denuncia come calunniose le accuse di Amara nei confronti di Ardita. In tutto questo sconquasso, c’è chi per tentare di tenere unito il fronte giustizialista si gioca l’ultima carta: la mozione degli affetti. Sul Fatto quotidiano Gian Carlo Caselli dice che "se [Davigo] ha commesso un peccato, si è trattato di un peccato che si potrebbe definire di generosità”.

 


Qualcosa di analogo sta avvenendo sul fronte antimafia. Michele Santoro, nel suo ultimo libro, ha dato voce al sedicente pentito Maurizio Avola, killer di 80 persone, che a distanza di 28 anni confessa di essere stato parte del commando che ha ucciso Paolo Borsellino: Avola racconta di avere piazzato con le sue mani il tritolo nella Fiat 126 parcheggiata e di aver dato il segnale per l’esplosione dopo aver guardato in faccia il magistrato. E’ un “racconto con una lucidità incredibile”, dice Santoro. Non la pensa così la procura di Caltanissetta, che ha smentito categoricamente la ricostruzione di Avola visto che gli accertamenti dei magistrati “non hanno trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità”. Insomma, Avola è un pataccaro. L’asserito scoop è stato contestato sul Fatto quotidiano, a sua volta attaccato da Santoro (“Il Fatto ha dimostrato di non conoscere niente della storia di Maurizio Avola”) ed è stato stroncato anche dall’ex pm Antonio Ingroia che ha parlato di “depistaggio”. Una volta, ai tempi del papello e delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, le patacche univano un fronte che invece ora, ai tempi dei verbali di Amara e Avola, dividono. 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali