Unico Uniqlo
Lui è l’uomo più ricco del Giappone, tra i primi cinquanta del mondo, con un patrimonio calcolato intorno ai quindici miliardi di dollari. Eppure Tadashi Yanai, 67 anni, fondatore e ceo del colosso Fast Retailing che possiede il marchio Uniqlo, nei giorni feriali indossa uno Swatch da duecentocinquanta dollari. Tipico dei giapponesi: il denaro non va ostentato, non si adatta alla tradizione confuciana della ricchezza interiore. Yanai, però, il fascino dei soldi lo subisce eccome. Lo dimostra la sua abitazione nel cuore di Tokyo, sulla quale circolano parecchie leggende. Nel 2000 Yanai acquistò 8.500 metri quadri di terreno a Oyamacho, nel quartiere di Shibuya. Ci costruì sopra una casa abbastanza grande da contenere la moglie, i due figli e la sua enorme passione per il golf – si parla di un paio di campi privati – e oggi l’intera area è valutata 74 milioni di dollari. (Ma Yanai possiede anche due resort golfistici alle Hawaii, per le vacanze). Del resto il fondatore di Uniqlo è in buona compagnia, perché fa parte dei milionari che vengono dalla regione dell’Asia Pacifico, il cui numero è cresciuto nel 2015 del dieci per cento.
Se non avete mai sentito parlare della marca di abbigliamento Uniqlo, probabilmente non siete mai stati in Giappone. C’è un negozio Uniqlo in ogni strada, in ogni angolo, fermi a qualunque semaforo, vi basterà volgere lo sguardo a destra o sinistra, e di sicuro riconoscerete l’inconfondibile scritta rossa. Ci sono più di ottocento negozi in tutto il territorio giapponese, che nel mese di maggio del 2016 hanno fatto un +7,6 per cento di vendite. Ma Uniqlo è anche all’estero: dieci negozi in Inghilterra, altrettanti in Francia, tre a Berlino e due in Belgio (no, in Italia non è mai arrivato). Quarantaquattro negozi in America, e 449 in Cina. E poi Hong Kong, Taiwan, Singapore, Malesia, Corea, Indonesia. Un numero complessivo di mille e seicento negozi in sedici diversi mercati. Se la Brexit non si mette di mezzo, e se l’Abenomics non costringerà le grandi aziende a delocalizzare, la strategia di Uniqlo è quella di arrivare al 2020 con 50 miliardi di dollari di vendite, dieci miliardi di dollari di profitti. Del resto Uniqlo – quarta catena d’abbigliamento al mondo – è dappertutto, ed è, su stessa ammissione del suo fondatore, il vero rivale del gruppo spagnolo Inditex (quello che possiede marchi come Zara) e della svedese H&M. Con delle differenze, però. Trent’anni fa Tadashi Yanai ha trasformato una piccola bottega in un colosso internazionale, senza mai perdere il suo carattere esplicitamente giapponese con continui – a volte inconsapevoli – rimandi alla tradizione. Per il mondo dell’imprenditoria è un idolo, il modello di una generazione di businessmen che hanno saputo fondare degli imperi dalle macerie del Giappone del Dopoguerra. E tanto più che il business di Uniqlo è molto diverso dal chiodo in finta pelle giallo di Zara e dalle magliette strappate di H&M. Uniqlo è l’essenza stessa dello stile asiatico, fatto di eleganza e moderazione (che spesso fa rima con omologazione) e di capi estremamente basic. E’ un low cost, ma neanche troppo: una maglietta da uomo costa in media quindici euro, almeno un terzo in più rispetto a Zara, il doppio rispetto a Primemark (la catena inglese di capi d’abbigliamento a prezzi stracciati). In Giappone Uniqlo è talmente diffuso che indossare i capi di abbigliamento della catena, tra i più giovani, è considerato un po’ da sfigati. Esiste addirittura un termine, unibare, che vuol dire tecnicamente beccare qualcuno indossare la roba di Uniqlo.
E c’è un motivo se i ragazzini che indossano certe giacche vengono bullizzati. Una volta Yanai ha detto che la ricerca di Uniqlo non è la moda, la tendenza e il dress code da Lady Gaga, ma la tecnologia. E infatti sin dall’inizio tutta l’attenzione si è concentrata sulla ricerca dei materiali – sempre più leggeri e comodi, perché le estati in Giappone possono essere molto calde e umide. Nel 2004 l’azienda ha firmato la Dichiarazione di Qualità globale, introducendo il cachemire e i prodotti Heattech, caldi ma traspiranti. Gli scaffali dei negozi sono pieni di camicie, magliette, felpe in pochi modelli, ma in moltissimi colori. Naturalmente con qualche adattamento per i negozi all’estero: nel 2014 l’Uniqlo di New York ha iniziato una collaborazione con il MoMa, e il risultato è stato una collezione di t-shirt ispirate all’arte contemporanea di Andy Warhol, Jean-Michel Basquiat, Keith Haring, Jackson Pollock. Da giugno è disponibile anche la collezione Batik, ispirata alla tradizionale decorazione dei tessuti indonesiana, e in aprile era stata lanciata quella ispirata al saris, il vestito tradizionale in Bangladesh. Parte dei ricavati di queste collezioni andrà ad aiutare le donne che lavorano negli stabilimenti del sud est asiatico. Il messaggio della moda occidentale è distinguersi, il cuore del business di Uniqlo, invece, è quello dei vestiti semplici e funzionali, e si inserisce perfettamente nella nuova moda nata in Giappone del minimalismo – il best seller di Marie Kondo ne è un esempio – per la quale se una cosa non è necessaria, allora va eliminata.
Oltre che per aver trasformato una piccola bottega in un colosso mondiale, Tadashi Yanai è famoso (all’estero) anche per la sua fama di leader “illuminato”. Quando nel 2010 vinse il Premio di venditore internazionale dell’anno, il New York Magazine gli dedicò un lungo reportage all’Uniqlo di Soho, che già dalla mattina alle 9,30 – mezz’ora prima dell’apertura – era pieno di clienti in fila in attesa di entrare. “L’altra settimana un turista italiano è spuntato nell’Uniqlo e ha comprato talmente tanti maglioni di cashmere a 89.50 dollari ognuno, in tanti colori, che riusciva a malapena a tenerli”, scriveva Bryant Urstadt sul NYMag. “Anche il direttore del negozio è rimasto sorpreso, pur essendo ormai abituato all’appassionato shopping da Uniqlo. C’è un banchiere locale che qui compra calzini, biancheria intima, e t-shirt a caso, e lo fa ogni mese. Ovviamente ha capito che acquistarli nuovi da Uniqlo è più conveniente che fare il bucato”. Ma come è possibile che un negozio di vestiti così anonimi sia diventato un must? Tadashi Yanai è il Warren Buffett giapponese, ha spiegato a Urstadt Shin Odake, capo della Fast Retailing americana, “E’ sempre in televisione”. In effetti in Giappone i media danno ampio spazio alla concezione dell’economia e del business di Yanai, ed è considerato in occidente un “visionario”: “Le aziende hanno il dovere di vivere in armonia con la società, ma per essere accettate devono contribuire alla società. La maggior parte delle aziende non sono riuscite a mantenere questo equilibrio. Ognuno di noi è, per prima cosa, un membro della società e poi un membro dell’azienda. Pensare soltanto all’azienda porta al fallimento”. Questo è uno dei concetti fondamentali espressi nella biografia del 2003 di Yanai, “One Win, Nine Losses” (una vinta, dieci perse), che già dal titolo spiega quale sia la filosofia del business di Uniqlo. Yanai dice di aver imparato tanto dal primo fallimento della Fast Retailing, quando nel 2001 cercò l’internazionalizzazione lanciando i negozi in Gran Bretagna. La Uniqlo si ritirò dal mercato inglese nel 2003, per poi tornarci nel 2007. Per Yanai fu un errore sbarcare all’estero all’inizio dei Duemila, senza una vera strategia e soprattutto con un negozio del tutto snaturato: Uniqlo è per il cliente, e le sue esigenze sono al centro delle preoccupazioni dei dipendenti, così come nella tradizione giapponese del kaizen, il concetto di continuo miglioramento che tanto affascina i teorici della filosofia aziendale. “Fu un errore lasciare la gestione dei primi negozi inglesi ai locali. Non dobbiamo mai dimenticare che siamo un’azienda giapponese”, dice spesso Yanai raccontando del primo periodo inglese, sottolineando quanto la sconfitta sia in realtà un momento per imparare la lezione (e di nuovo, i riferimenti alle arti marziali giapponesi e allo spirito confuciano sono evidenti). Non è difficile immaginare perché in occidente un personaggio simile abbia riscosso parecchio successo.
In Giappone, generalmente e per cultura, i ricchi indossano gli Swatch per non sembrare poi così ricchi, perché essere milionari vuol dire essere spesso guardati con sospetto e la ricchezza viene vissuta quindi come una colpa. Tadashi Yanai finì su tutti i giornali nel 2011 perché, dopo l’emergenza del terremoto e dello tsunami che colpirono il Giappone, donò 8,85 milioni di euro per le vittime. Quasi nove milioni di euro. Una cifra che non è da filantropo, ma da milionario innamorato del proprio paese.