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Precario a chi?

Giovanni Battistuzzi

Da Ferguson a Mihajlovic. Perché è l’allenatore a essere artefice del proprio futuro. Vedere il calcio nelle teorie di Kierkegaard. Chi allena è fautore della sua instabilità, si crea la sua dimensione esistenziale. Come teorizzava il filosofo danese.

Instabili, legati ai risultati, vittime degli umori e delle ambizioni dei presidenti e delle sorti societarie. Li descrivono così gli allenatori, carne da cannone, come se il loro destino non fosse legato ad altro che alla imprevedibilità di scelte altrui. Precari, ma nemmeno troppo, perché per uno che viene cacciato, mediamente, due rimangono e possono rimanere a lungo. Perché se precari sono e il loro destino è legato al rendimento c’è dell’altro: rimanere è questione di carattere e lavoro, gestione di uomini e sopportazione della tensione. Perché anche gli allenatori ci mettono del loro, hanno le loro peculiarità e le loro colpe, sono professionisti, certo, ma anche viziati e viziosi, cultori del lavoro e di loro stessi, di idee tattiche e di gioco che difendono sino all’estremo, sino alla rottura con ambiente e datori di lavoro. Oppure trasformisti, alchimisti di uomini e disposizioni in campo, fedeli inginocchiati all’altare di una maglia, di colori che provano a legare a loro come una nuova pelle.

 

“L’allenatore è umano, ha i problemi che hanno tutti gli uomini, non esiste quello perfetto, ma esiste quello che riesce a farti vincere”, disse il presidente del Real Madrid delle cinque Coppe dei Campioni consecutive dal 1956 al 1960, Santiago Bernabeu. “Gli allenatori sono burattini e burattinai, possono esaltare i giocatori ed esaltarsi, rimanere oppure eclissarsi subito. Dipende da loro”. Possono vivere in una porta girevole oppure rimanere seduti in poltrona come un nonno, ma “non si dica che è colpa dei presidenti. L’unica colpa dei presidenti è quella di amare un club e volere il meglio. Non è il presidente a scegliere, ma il campo a decretare ed è l’ego di chi allena a decidere”.

 

Santiago Bernabeu prima di sedersi dietro la scrivania dei Blancos fu attaccante del Real per 15 anni e poi tecnico per una stagione. La panchina la lasciò per noia e consapevolezza, perché per trionfare “non basta dirigere gli uomini, bisogna controllare tutto, soprattutto chi i calciatori li gestisce”. Durante i 35 anni della sua presidenza cambiò 16 allenatori, moltissimi furono di passaggio, uno all’anno, “perché il Real non deve essere gestito, ma amato, non è il tecnico che farà grande il Real, ma il Real a fare grande il tecnico. Il problema degli allenatori è che non lo capiscono, pensano di essere fenomeni, non si accorgono che spesso lo sono solo da baraccone”. Tutti tranne uno, Miguel Muñoz, capitano della prima Coppa Campioni vinta: rimase per 15 anni al suo posto, “il solo a capire che una squadra è un’immagine da amare e conservare, non uno specchio nel quale riflettersi”.

 

Dicevano che Bernabeu adorasse i suoi atleti e detestasse gli allenatori, che fosse un decisionista autoritario con la spocchia di chi sa di conoscere il gioco alla perfezione e che il merito dei successi del club fosse soprattutto suo. Altri sostenevano che era solo un uomo che amava i Blancos in modo assoluto, che mettesse il Real sopra ogni cosa e che non potesse sopportare l’esistenza di un sentimento diverso: nessun personalismo era concesso, neppure ad Alfredo Di Stefano, la testa e il carisma di quella squadra che dominò il calcio europeo per un lustro. Amò Muñoz perché “era un uomo votato al Real con cuore e testa”, rifiutando di ingaggiare Bela Guttmann, l’allenatore più quotato di allora perché “giramondo senza cuore né fedeltà”.

 

E’ in questa distinzione di Santiago Bernabeu che sta la cosiddetta precarietà degli allenatori, quella fragilità che li rende instabili. La colpa è dei risultati, dicono. Ma questi sono conseguenza non causa, come esoneri e successi, fallimenti e trionfi. Il discrimine è a monte, sta in quella disposizione d’animo individuata dal presidente del Real, è qualcosa che col calcio c’entra, ma fino a un certo punto, che riguarda l’uomo più che il tecnico.

 

Se allenare una squadra è una questione di compromessi tra tattica, tecnica e gestione degli uomini e il campo può diventare una scacchiera dove disporre i giocatori come pedine oppure una radura dove lasciarli giocare secondo la loro ispirazione, a differenziare gli allenatori è altro. Più che schemi e moduli è “una questione di anima” o almeno per John Smith, presidente del Liverpool dal 1973 al 1990: “Il successo di una formazione sta sì nei giocatori che scendono in campo, ma anche e forse soprattutto nell’abilità di un tecnico, nella capacità di amare quello che fa più che amarsi”. Fu Smith a volere Bob Paisley, allora allenatore della squadra riserve, alla guida dei Reds, fu lui a vedere in quell’uomo pignolo e ossessionato dai dettagli, capace di sacrificare vita e affetti alla causa del Liverpool, il perfetto erede di Bill Shankly, il tecnico che aveva trascinato la squadra al primo successo internazionale. Nelle nove stagioni con Bob in panchina i rossi vinsero tutto, riuscendo a diventare la formazione più forte al mondo. “Paisley è per il Liverpool quello che un padre è per una famiglia”, disse il presidente all’annuncio dell’addio del tecnico. “Finché sarò presidente assicuro che questa famiglia avrà un padre, qualcuno pronto ad amare colori e storia, non un avventore in cerca di gloria e pronto a lasciare per cercare un altro posto dove specchiarsi”. Mantenne la promessa.

 

Paisley vinse “perché era Liverpool”, incarnava la città, per questo rimase un decennio. E avrebbe continuato se il suo cuore non avesse iniziato a dargli problemi. Rimanere a lungo in un club è logorante, cambiare diventa difficile e può subentrare la noia della quotidianità, il peso ossessivo delle aspettative di tifo e società. Resistere è una questione caratteriale dove i risultati diventano conseguenza della capacità di automotivarsi: c’è chi ci riesce e chi crolla. La vita di un allenatore richiama quanto scritto da Soren Kierkegaard quasi due secoli fa nella riflessione sulle modalità esistenziali dell’uomo, introdotte in “Stadi sul cammino della vita” e poi ampliate nei lavori successivi, ossia lo stadio estetico, lo stadio etico e quello religioso.

 

Contano ambizione, carattere e propensioni umane. La differenza sta nella scelta di seguire una di queste tre strade, tre vie diverse, tre possibilità tra le quali scegliere, senza facoltà di mediazione, perché mediazione non c’è, esiste solo la possibilità di un cambiamento, di una mutazione di stato, ma il salto è totale, brusco e senza sintesi.

 

Da un lato Paisley, votato alla causa totalizzante del Liverpool, un solo colore per tutta la vita, il rosso abbracciato dal 1939, l’anno del suo debutto come difensore centrale, sino al 1983, anno dell’addio alla panchina. Il Liverpool come unico vessillo, perché “per Bob non era solo una squadra, era la vita, la sua esistenza, era un monaco dedito al culto dei Reds”, dichiarò Joe Fagan, suo vice e successore. Stadio religioso. Lo stesso di Guy Roux, allenatore dal 1961 al 2005 – salvo due brevi periodi di stacco tra il 1962 e il 1964 e tra il 2000 e il 2001 dovuti prima alla leva militare e poi a una malattia – dell’Auxerre in Francia. L’allenatore francese prese i biancoblu in terza categoria e li portò prima nel massimo campionato francese e poi a vincere quattro coppe nazionali e una Ligue1. Per l’Auxerre era campo e testa, seguiva l’andamento di tutte le formazioni giovanili, faceva il giro delle discoteche la sera, controllava i contachilometri delle auto, si appostava davanti casa dei suoi uomini per vedere che seguissero le sue regoli di professionalità e rispetto degli impegni. Si ritirò nel 2005. Per due anni lo cercarono in tanti, molte offerte, altrettanti rifiuti. Nel 2007, dopo mesi di telefonate andate a vuoto, lo convinse a tornare ad allenare un amico di vecchia data, il general manager del Lens. Rimase però solamente quattro partite, poi con la faccia tesa dalla vergogna disse: “Non dovevo accettare, è da un mese che mi guardo allo specchio e mi sento tradito da me stesso. Sono e sarò sempre un uomo con due soli colori, quelli dell’Auxerre”. Non allenò più. O come Ronnie McFall, che dal 1986 allena il Portadown in Irlanda del nord, città dove è nato. Tre anni fa, quando il suo nome venne avvicinato a diversi club inglesi dichiarò alla Bbc: “Andarmene? Mai. Questa è casa mia, la mia vita, il mio eremo. Come un capitano non mollerà la sua barca, io non posso vedermi lontano da qui. Il calcio è una cosa, la fede un’altra”.

 

Dall’altro lato Bela Guttmann, allenatore giramondo, esportatore di calcio perché, per sua stessa ammissione, “non c’è nulla di più sbagliato che marcire una vita su di una stessa panchina. Il calcio è esperienza e rimanere fermo in un posto vuol dire rinunciare a vivere”. Guttmann partì dall’Austria, andò in Olanda, ritornò nella sua Budapest prima di espatriare ancora verso l’Italia (Padova e Triestina), l’Argentina, Cipro, Italia ancora (Milan e Vicenza), Brasile, raggiungere il Portogallo e vincere due Coppe dei Campioni consecutive con il Benfica di Eusebio. Sorvolò ancora l’Atlantico andata e ritorno dall’Uruguay, andò in Svizzera, Grecia per ritornare in Austria e Portogallo. “Senza mai pace, perché i grandi pace non hanno, continuano a cercare nei loro occhi, allo specchio, quello che manca loro, senza accorgersi di quanta bellezza hanno seminato in giro per il mondo”, scrisse Osvaldo Soriano riferendosi a Guttmann. Un don Giovanni del calcio, attratto e forse schiavo della dimensione estetica della sua vita, capace di andare ovunque pur di dimostrare la sua bravura.

  

Come lui in tanti, “allenatori ossessionati dal culto del loro calcio, per i quali la bellezza del gioco trascende risultati e vittorie: a contare è il gesto, lo spettacolo, la messa in pratica di loro stessi”, scrisse l’editorialista dell’Equipe e padre del Pallone d’Oro Gabriel Hanot nel 1965. Come Bela, Bora Milutinovic, serbo per nascita ma partito dal Messico per girare tutti e cinque i continenti esportando la sua idea di tutti all’attacco, ovunque lo volessero e mai per più di quattro anni, “perché già al terzo si esaurisce un ciclo, dopo il quarto è solo idiozia e autolesionismo rimanere”. Come lui Zdenek Zeman, che il mondo lo ha visto a sprazzi, ma l’Italia l’ha girata tutta, sempre alla ricerca di una baia nuova dove approdare con il suo 4-3-3 offensivo e spettacolare. Oppure Sven Goran Eriksson, maestro che campionati e coppe ne ha vinti in tutta Europa, prima di peregrinare tra medio ed estremo oriente alla ricerca di nuove avventure e motivazioni. Esteti poco inclini alla vita regolare, allergici al solo pensiero di mettere radici da qualche parte. Come Sinisa Mihaijovic che più di due anni ancora non è riuscito a resistere in un posto, che rincorre il bel gioco e se stesso.

 

Stabilità invece che altri hanno provato a ricercare, convinti a ogni avventura che potesse durare per sempre. Gente capace di donarsi totalmente a una squadra, a un progetto che con loro nasceva e che sarebbe potuto andare avanti a lungo se non si fossero frapposti eventi impronosticabili al loro desiderio di stanzialità. Padri di famiglia, stato etico dell’esistenza, capaci di amare senza riserve le squadre che hanno allenato, per poi ogni volta rimanere scottati e ripartire però con la stessa volontà di gettare le basi per una convivenza matrimoniale prolungata. Gente come Fabio Capello che iniziò al Milan, regalò ai rossoneri campionati e Champions League e che abbandonò solo all’evidenza che qualcosa era finito e che quanto aveva creato non sarebbe più potuto ripetersi. Si stanziò alla Roma e alla Juventus con ambizioni di vittorie e di prolungata permanenza e le salutò solamente dopo essersi reso conto dell’impossibilità di continuare, capace di tradire, ma solo per un altro grande amore, di passare da una squadra all’altra ma per restare, senza mai pensare che potesse essere solamente una botta e via. Come Francesco Guidolin che di Italia ne ha girata, di squadre ne ha cambiate, ma sempre ricercando stabilità e affetto. Come Ottmar Hitzfeld che è riuscito a stanziarsi a lungo sia sulla panchina del Borussia Dortmund sia su quella del Bayern Monaco, a vincere tanto con entrambe e dire nel 2003, dopo quattro Bundesliga consecutive: “Io seguo le passioni, ma le mie non sono fuochi, ma affetti. Passare da una grande all’altra non è un tradimento, è un passaggio di casa. Noi allenatori siamo bambini a cui piace essere amati e che amiamo di conseguenza. Non potrei mai allenare in un posto dove questo non accade, non potrei mai allenare dove non intravedo la possibilità di stare a lungo”.

 

La stabilità, la famiglia, un desiderio che può durare una vita come nel caso di Walter Smith, tecnico scozzese che nella sua lunga carriera si è seduto solamente sulle panchine dei Rangers Glasgow (a più riprese) e dell’Everton, “perché ha lo stesso colore dei Rangers” ironizzò dopo pochi mesi a Liverpool. Gli stessi colori della Scozia, dove iniziò la sua carriera con la formazione Under-21. Oppure che può durare a sprazzi, perché lo stato etico porta dentro di se l’ingresso nell’universalità del dovere e comporta l’accettazione di una profonda responsabilità e una vita caratterizzata spesso da conformismo e convenzionalismo. Ed è lì che può arrivare il pentimento, la ricerca di altro. E’ lì che ci si può elevare allo stadio religioso, come nel caso di sir Alex Ferguson che dopo anni di medio lunghe esperienze in Scozia – tra club e Nazionale – si stanziò al Manchester United, per 26 anni. Oppure degradarsi allo stadio estetico. Giovanni Trapattoni ne è forse l’esempio più evidente. Lui capace di essere padre vincente di Juventus e Inter, dopo l’addio a entrambe, iniziò un andirivieni tra Italia, Germania e Portogallo senza continuità, alla ricerca di vittorie e nuove esperienze, perché “nella vita ci sono tre certezze: si nasce, si muore, si cambia. E io coltivo la terza”, disse. Poi aggiunse: “La gioventù è dei grandi amori, poi con l’avvicinarsi della vecchiaia uno capisce che è giusto vedere tutto e quindi se i grossi amori sono andati, meglio concentrarsi sulle nuove esperienze”.

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