Foto LaPresse

Big tech alla sbarra

La fantasiosa teoria fiscale della procura di Milano che minaccia i servizi digitali globali

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Meta avrebbe evaso 4 miliardi di Iva, nonostante l'utilizzo dei propri social networl sia gratuito. Ma l’idea che i dati personali possano essere considerati un bene di scambio vendibile dagli utenti (quindi da tassare) è un arbitrio economico e giuridico, che porta ancora più incertezza nel diritto

Attenti a dove mettete le dita sullo schermo dello smartphone: potrebbe generarsi un pericoloso “rapporto sinallagmatico”. E scatterebbe l’accertamento fiscale anche per voi, non solo per Zuckerberg & Co. Secondo la surreale ipotesi avanzata dalla procura di Milano, infatti, l’utilizzo gratuito dei social network di Meta (Facebook e Instagram) configurerebbe una “permuta tra beni differenti”, in quanto tale soggetta al regime Iva e quindi da tassare: nella fattispecie, quasi 4 miliardi (!) di imponibile per circa 887 milioni di imposta da riscuotere. Secondo questa fantasiosa teoria fiscale, la gestione dei dati personali degli utenti, condizione per l’utilizzo gratuito dei servizi digitali, instaura “un rapporto di natura sinallagmatica, in virtù della connessione diretta in termini di proporzionalità quantitativa e qualitativa tra le contrapposte prestazioni”. A una prima lettura, l’ipotesi della procura non solo appare priva di fondamento economico, ma costituisce una minaccia potenzialmente devastante nei confronti dell’intera architettura dei servizi digitali globali.

Proviamo a spiegare perché tale tesi è del tutto non condivisibile e anzi danneggia gravemente gli interessi del paese agli occhi degli investitori internazionali, come già è purtroppo accaduto in numerose altre occasioni, non ultima quella del blocco – primo e unico al mondo – di ChatGPT per arzigogolate considerazioni giuridiche, poi ritirate in quanto inconsistenti. C’è infatti un equivoco di fondo: Meta non vende agli inserzionisti pubblicitari i dati personali degli utenti, ma solo la loro attenzione, come qualsiasi attore del settore media, dalla tv commerciale ai giornali online. E’ lo stesso errore logico compiuto da altre autorità di regolamentazione, quando negli anni scorsi hanno imposto a Facebook di non utilizzare la definizione di servizio gratuito. L’idea che i dati personali possano essere considerati un “bene” scambiato in una permuta è infatti un arbitrio economico e giuridico. I dati personali sono soggetti a normative specifiche (Gdpr in Europa), che li qualificano come diritti fondamentali, non beni di scambio. La loro raccolta e utilizzo non configura una transazione biunivoca, ma un’attività regolamentata da consensi e informative, che non implicano un valore economico contrattualizzato.

Un “rapporto sinallagmatico” presuppone invece uno scambio diretto e proporzionato di prestazioni tra due soggetti. Nel caso di Meta, gli utenti ricevono l’accesso gratuito a piattaforme e servizi digitali senza effettuare un pagamento monetario. La registrazione di dati personali da parte degli utenti non rappresenta una prestazione corrispettiva in senso giuridico e fiscale: i dati personali non sono quindi “venduti” dagli utenti in modo consapevole o contrattualizzato, ma registrati e trattati secondo le normative europee. La valorizzazione del rapporto con gli utenti avviene indirettamente, tramite pubblicità acquistata dagli inserzionisti. 

La tesi della procura sembra infatti ignorare i fondamentali meccanismi economici che governano i mercati multilaterali (multi-sided market) caratteristici delle piattaforme digitali, come definiti dal premio Nobel Jean Tirole, caratterizzati dalla presenza di più gruppi interdipendenti (utenti finali da un lato, inserzionisti pubblicitari dall’altro) e da interazioni indirette: il valore economico per la piattaforma deriva dalla capacità di facilitare le interazioni tra questi gruppi, piuttosto che da uno scambio diretto con ciascuno di essi. In tale configurazione, la piattaforma agisce come intermediario, ottimizzando le condizioni per attrarre un numero sufficiente di utenti (user side) e di inserzionisti (advertiser side). La gratuità per gli utenti non è una generosa concessione, bensì una precisa strategia economica di sussidio che massimizza gli effetti di rete, ossia il fenomeno per cui il valore del servizio aumenta con l’aumento del numero di partecipanti.


Va inoltre ricordato che l’Iva è tema fiscale europeo. La giurisprudenza non ha mai definito un simile rapporto come soggetto a Iva, imposta che si applica alle operazioni economiche in cui esiste una controprestazione economica diretta, non al semplice trattamento di dati per scopi interni o commerciali. Se l’ipotesi della procura fosse accolta, si creerebbe un precedente con gravi implicazioni: tutti i servizi digitali gratuiti che raccolgono dati (motori di ricerca, app gratuite, piattaforme di streaming con pubblicità) potrebbero essere considerati soggetti a Iva. Questo amplierebbe enormemente l’ambito di applicazione dell’imposta, creando un panorama fiscale incerto e difficilmente applicabile. L’Italia, ancora una volta, diventerebbe il paese della totale incertezza del diritto, territorio ostile all’innovazione e agli investimenti. Abbiamo invece disperato bisogno di attrarre capitali e tecnologie, ovvero dell’esatto contrario di un’inquisizione fiscale sguinzagliata per rimpinguare le esangui casse dello stato.
 

Di più su questi argomenti: