il karma
La sentenza di Davigo del 2013 che condanna Davigo sul caso Amara
La condanna d'appello nei confronti dell'ex pm per violazione del segreto d’ufficio si basa, paradossalmente, anche su alcuni princìpi affermati con molta chiarezza alcuni anni fa dalla Corte di cassazione presieduta proprio da Davigo
Anche Piercamillo Davigo avrebbe condannato il Davigo che nella primavera del 2020 si fece consegnare dal pm milanese Paolo Storari i verbali di Amara coperti da segreto, per poi rivelarne il contenuto a svariati componenti del Consiglio superiore della magistratura e contribuire a quella che è stata definita una “fuga di notizie senza precedenti” (i verbali finirono per essere recapitati pure ad alcuni giornali). Non tanto per la vena forcaiola che da sempre anima l’ex pm di Mani pulite, ma perché la sentenza con cui la corte d’appello di Brescia ha confermato la condanna a un anno e tre mesi nei confronti di Davigo per violazione del segreto d’ufficio si basa, paradossalmente, anche su alcuni princìpi affermati in passato dalla Corte di cassazione presieduta dallo stesso Davigo.
Nelle motivazioni della condanna d’appello, i giudici di Brescia riprendono la giurisprudenza di legittimità e ricordano giustamente come la violazione del segreto sia punibile “non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della notizia da tenere segreta”. Tuttavia, “quando è la legge a prevedere l’obbligo del segreto in relazione a un determinato atto o in relazione a un determinato fatto, il reato sussiste senza che possa sorgere questione circa l’esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l’esistenza del pericolo, ritenendola conseguente alla violazione dell’obbligo del segreto”.
“Se così è – proseguono i giudici bresciani – è evidente che, nel momento in cui è lo stesso art. 329 c.p.p. a indicare che, come nel caso di specie, gli atti di indagine sono atti coperti da segreto tout court (…), la valutazione circa la sussistenza del pericolo della loro divulgazione è già stata fatta, a monte, dalla norma primaria senza che possa essere rimesso all'interprete la valutazione del rischio. Da ciò consegue che le rivelazioni rese dal dott. Davigo, in quanto concernenti atti coperti da segreto ex art. 329 c.p., erano, per ciò stesso, potenzialmente pericolose per l’indagine a prescindere dalla loro successiva e ulteriore divulgazione”. In altre parole: nel momento in cui è il codice di procedura penale a stabilire che gli atti di indagine devono rimanere segreti, la violazione di questo obbligo implica di per sé la sussistenza del reato di violazione di segreto d’ufficio.
Ebbene, il caso – o il karma – vuole che questo principio sia stato affermato con molta chiarezza nel 2013 dalla seconda sezione penale della Cassazione, in un collegio presieduto proprio da Davigo. La sentenza (n. 30838) riguardava un caso di violazione di segreto d’ufficio da parte di un ufficiale della polizia giudiziaria, accusato di aver consegnato atti di indagine coperti da segreto a un commercialista. Proprio in quell’occasione Davigo ebbe modo di affermare chiaramente che “la disputa circa la natura del pericolo (del reato di violazione di segreto d’ufficio, ndr) perde di senso quando sia la legge stessa a definire segreto un determinato fatto o atto ovvero una intera categoria di essi”, come nel caso degli atti di indagine, “destinati a rimanere segreti per la previsione espressa di cui all’art. 329 c.p.p”.
Di conseguenza, la corte presieduta da Davigo evidenziava che nel caso di violazione del segreto istruttorio “il danno è quasi in re ipsa, essendo sostanzialmente inimmaginabile una indagine di rilievo penale che possa seriamente svolgersi senza rigorosamente limitare la libertà conoscitiva degli atti che si vanno compiendo, ma è di assoluta evidenza che la conoscenza diffusa del contenuto di informazioni investigative assunte e delle indagini eseguite non poteva di per sé non pregiudicare il buon andamento delle indagini e, in definitiva, offendere il bene giuridico tutelato”. Paradossalmente proprio ciò che è avvenuto, sette anni dopo, a causa della violazione da parte di Davigo del segreto d’ufficio sui verbali di Amara.