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Differenze

L’errore di confondere la ragion di stato su Cospito con il caso Moro

Giuliano Ferrara

L'anarchico al 41 bis, in sciopero della fame, merita una riflessione pietosa, cosa del tutto diversa dal cedimento al ricatto di un partito armato combattente. No alla simulazione storica che rinnova la tragedia di quasi mezzo secolo fa

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La tragedia della fermezza dello stato nel caso del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro (1978) non va confusa con la questione dell’anarchico Alfredo Cospito, del suo sciopero della fame fino al rischio di morte, della richiesta dei suoi legali di sottrarlo alle regole di restrizione del 41-bis, secondo il criterio stabilito per impedire i contatti tra i grandi criminali mafiosi e le cosche di appartenenza. Tragedia è parola importante, indica uno stato di necessità, di inevitabilità del male, un dilemma storico e morale senza soluzione positiva possibile. Nella storia italiana repubblicana, e forse non solo in quella, il caso di Moro è l’unico vero caso definibile in termini tragici, che evocano il coro greco o Shakespeare.

 

Non c’è solo, a distinguere le circostanze, il fatto che l’anarchico oggi in carcere duro ha compiuto nel 2012 un delitto grave contro la persona, colpendo alle gambe un dirigente industriale del settore nucleare, ma senza effetti mortali, mentre il rapimento di Moro era costato cinque corpi stramazzati sul selciato di via Mario Fani, gli uomini della sua scorta, e fu contrappuntato per giorni da una campagna di primavera fatta di aggressioni, omicidi e delitti di natura terroristica all’insegna di un programma del partito armato, lo smantellamento dello stato e la guerra civile contro i suoi rappresentanti, cosa diversa dal confuso e pericoloso antagonismo degli anarchici di questa epoca.

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Non c’è solo la questione opinabile dell’uso del 41-bis nel trattamento carcerario, come per chi e quando. Non c’è solo il fatto che la morte di Moro, alla quale il partito della fermezza era più pronto che rassegnato, era la morte di una forma della Repubblica; mentre la sorte di Cospito, che si infligge da 100 giorni un duro sciopero della fame di protesta, riguarda il destino di un individuo isolato, al massimo espressione di sentimenti sparsi di solidarietà confusi e minacciosi verso le istituzioni, come  se ne conoscono in tempi di anarchismi veri e mimati (Extinction Rebellion).

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C’è qualcos’altro. Lo stato italiano che non trattò e subì durante lunghi e tormentosi 55 giorni la decisione di eliminare quell’uomo politico, il centro propulsore del sistema dei partiti e della democrazia, imprigionato da un gruppo terroristico comunista, era stato costruito su basi di infinita negoziabilità di ogni cosa. Proprio la classe dirigente cattolica democristiana, d’intesa con il Pci nonostante il conflitto freddo mondiale, aveva modulato nel tempo un criterio in cui tutto era sempre trattabile. Per dare radici e forza alla Repubblica e garantirne la tenuta democratica in piena Guerra fredda, dopo il conflitto mondiale devastante 1939-1945 (questa era l’idea di Moro in primo luogo, e di Togliatti e altri), bisognava che trasformazione e continuità, rigore e flessibilità, si intrecciassero in una consociazione capace di evolvere nel metodo del negoziato tra avversari, riuscendo a superare perfino l’opposizione di principio e militante tra gli amici degli americani e dell’occidente e gli amici dell’Unione sovietica, due sistemi alternativi che si escludevano mutualmente.

 

La tragedia è nel cattolico fervente, nel politico di estrazione fucina e contiguità vaticana, che scrive al Papa e ne riceve in risposta dolorosa e ultimativa una lettera ai suoi aguzzini, “uomini delle Brigate rosse”, in cui si chiede loro di  liberare il fratello Aldo “senza condizioni”. La tragedia è nella prosa chiara, emozionante sentimentale e lucida e per una volta trasparente e lineare, con cui sono scritte le lettere dal carcere del prigioniero, invocando, oltre a Dio e affetti famigliari e amicizia, circostanze di diritto e storiche utili alla sua liberazione, indirizzandosi con argomenti forti e coerenti a tutta la sua vicenda politica e umana ai suoi amici e compagni di partito e a molti altri interlocutori del sistema dei partiti, lettere destinate a rimanere senza risposta, lettere di cui veniva perfino negata l’autenticità morale e psicologica. La tragedia è nell’intreccio tra umanitarismo tradito e politica obbedita secondo i canoni più ovvi e ferrei della Ragion di stato, in un contesto di lotta tra centri di potere e di indirizzo civile che continueranno per anni a fare dell’eredità storica del caso Moro un motivo di identità contrapposta e di battaglia. La tragedia è nel consenso morboso e folle di ampie sezioni della società civile e dell’intellighenzia agli scopi distruttivi del terrorismo, opposto al dissenso organizzato, disciplinato e in certi casi rabbioso di una maggioranza che si sentiva e si proclamava fedele alle regole della democrazia e dello stato. Per tutte queste ragioni Alfredo Cospito merita una riflessione pietosa, cosa del tutto diversa dal cedimento al ricatto di un partito armato combattente, e la necessità di assumere comportamenti rigorosi di diritto nel suo caso è altro, radicalmente altro, dalla simulazione storica di un rinnovo della tragedia di quasi mezzo secolo fa.

   

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