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Chi è Nunzio Sarpietro, il Gup del caso Gregoretti lodato da Salvini

Riccardo Lo Verso

A suo agio con i cronisti (con cui non ha risparmiato commenti politici anche sul premier Conte), iscritto a Magistratura Indipendente ma lontano dalle logiche degenerative delle correnti. Un ritratto del giudice per l'udienza preliminare del processo che vede indagato il leader della Lega

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E venne il giorno della celebrità anche per il magistrato Nunzio Sarpietro con tanto di passerella a Palazzo Chigi dove è andato per sentire il premier Giuseppe Conte nella veste di persona informata sui fatti. 

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E venne il giorno della celebrità anche per il magistrato Nunzio Sarpietro con tanto di passerella a Palazzo Chigi dove è andato per sentire il premier Giuseppe Conte nella veste di persona informata sui fatti. 

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I fatti riguardano il processo a Matteo Salvini sul caso dei migranti bloccati (sequestrati, secondo l'accusa), a bordo della nave Gregoretti nel luglio del 2019. Sarpietro, che è il giudice per l'udienza preliminare del processo, in trasferta da Catania a Roma, non ha resistito alla tentazione di rispondere ai cronisti. Ci ha tenuto a far sapere che Giuseppe Conte ha reso “un'ottima testimonianza”, che era “molto tranquillo”, che gli ha fatto “un'ottima impressione, credo che rappresenti molto bene il paese”.


Finito? Per niente, perché Sarpietro si è addentrato anche nel cuore del processo. Salvini, allora ministro dell'Interno, decise in autonomia di non fare sbarcare i migranti in Sicilia? Il gup ha parlato di “politica generale”, di “lavoro di squadra”, di “sintesi corale” a livello nazionale e internazionale sul ricollocamento dei migranti. Dunque Salvini non merita di essere processato? Di fronte al quesito dei quesiti Sarpietro ha deciso che forse era il caso di stoppare le sue dichiarazioni. Deve sentire altri testimoni per capire se “l'indirizzo politico” generale si sia concretizzato in singoli atti dei ministri dalla possibile rilevanza penale. “Ministri”, al plurale, perché secondo Sarpietro, anche questo ha detto prima di congedarsi dai cronisti, c'è continuità fra quanto fatto dal ministro Salvini e dal suo successore Luciana Lamorgese.  Peccato, qualche altra domanda e magari si poteva sapere, lì in piazza, davanti a Palazzo Chigi, se Salvini sia colpevole o meno. Innocente o meno. 

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Le cronache addirittura raccontano che il giudice si sia spinto fino a benedire un nuovo governo del premier: “A livello personale le auguro di andare avanti con un governo Conte ter, e non me ne voglia il senatore Salvini". Qualcuno in casa Lega ha intravisto nelle sue parole una certa partigianeria. Il primo a non mostrarsi preoccupato, anzi il contrario, però è stato proprio Salvini, soddisfatto per avere incrociato sulla sua strada di imputato "nei giorni dei Palamara un giudice che ha approfondito, letto e capito: possiamo contare su uomini di legge per bene".


Non è la prima volta che si parla di Palamara nell'ambito del processo. Nella memoria difensiva consegnata in Tribunale Salvini scrisse che il magistrato degli scandali, ex vicepresidente del Csm, ed ex magistrato ora radiato, diceva sul suo conto che “ha ragione, ma dobbiamo attaccarlo”. Sarpietro si sentì in dovere di rispondere: “Qui non ci sono Palamara, Salvini avrà un processo sereno e giusto”. 


Il cognome Palamara gli aveva creato un certo sommovimento interiore. Il perché è presto detto. Di Sarpietro si parla nel libro intervista scritto da Alessandro Sallusti “Il Sistema”. Palamara, perno del controllo correntizio degli incarichi in magistratura, nel libro ammette che “con il mio contributo decisivo (a Sarpietro) fu preferito un altro magistrato, Bruno De Marco, esponente della mia corrente” per la carica di presidente del Tribunale di Catania.


Sarpietro, pur se iscritto a Magistratura Indipendente, si è sempre mostrato lontano dalle logiche degenerative delle correnti nei 42 anni dei 68 di vita trascorsi con la toga sulle spalle. Nato a Paternò, nel Catanese, sposato con un magistrato, ha iniziato ad occuparsi di giustizia nel 1978 al Tribunale di Caltagirone per poi passare a Catania. Da giudice istruttore fu il primo ad avviare nel 1985 un procedimento per mafia con nove imputati, compreso Pietro Rampulla, ritenuto l’artificiere della strage di Capaci. Mafia e non solo: all'ufficio del Gip, ad esempio si oppose a tre richieste di archiviazione e dispose nuove indagini sui vertici dell’allora Pci per la storica vendita della sede del partito. Quindi il trasferimento a Trieste dove si misurò con i gruppi eversivi collegati all’area anarchica. Tempi duri, segnati dal ritrovamento davanti casa di un gatto morto con quattro candele rosse cerchiate da una mezzaluna. E poi di nuovo alle falde dell'Etna dove qualche anno fa entrò in “conflitto” con il giudice del suo ufficio che aveva deciso il non luogo a procedere dell’editore Mario Ciancio imputato per concorso esterno in associazione mafiosa.


Sarpietro fece rilevare che “la negazione del reato di concorso esterno all’associazione mafiosa dal punto di vista giurisprudenziale è una decisione del tutto personale e isolata della dottoressa Gaetana Bernabò Distefano, poiché tutti gli altri giudici della sezione ritengono il suddetto reato sicuramente ipotizzabile, come più volte stabilito dalla Corte di Cassazione”. 

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Piglio deciso quello di Sarpietro, ma lontano dalla ribalta mediatica. Fin quando non capita, in trasferta da Catania a Roma, di farsi prendere dalla irresistibile tentazione di concedersi ai microfoni sulla passerella davanti a Palazzo Chigi.

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