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Appunti per una giustizia nuova, svuotata dalla demagogia punitiva

Giovanni Fiandaca

Serve un nuovo orientamento culturale per ripensare un ruolo meno invasivo del penale nella sfera pubblica

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Non ho più l’età per fare sogni a occhi aperti, almeno in un orizzonte di vita personale. Ma come rinunciare  a qualche speranza, a qualche auspicio nell’interesse generale, ora che il nuovo anno è alle porte? Certo, al primo posto rimane la preoccupazione che in questo momento accomuna tutti, e ci fa sperare di uscire al più presto dalla persistente emergenza sanitaria. Come c’è la speranza correlata che il nostro paese riprenda progressivamente il suo cammino, lasciandosi alle spalle le plurime crisi provocate dall’emergenza.  Speranza che è suscettibile, a sua volta, di articolarsi in speranze o auspici più specifici, che ciascuno di noi vive in base alla propria sensibilità e ai propri interessi anche professionali. 
Come anziano professore di Diritto penale, e anche come garante siciliano dei diritti dei detenuti, mi piacerebbe in particolare potere confidare che il nuovo anno propizi l’inizio di una fase nuova, di una svolta nel settore della giustizia penale. Una svolta innanzitutto culturale e, dunque, negli atteggiamenti e orientamenti collettivi. Che coinvolga, nello stesso tempo, tutti gli attori del teatro penale: interpreti principali, comprimari, comparse e spettatori. In altre parole, alludo agli addetti ai lavori a partire dai magistrati, ai politici, ai giornalisti televisivi e della carta stampata, inclusi i cittadini comuni. Questo auspicabile riorientamento collettivo dovrebbe, a mio avviso, manifestarsi in una duplice direzione che provo a sintetizzare così: ridurre il ruolo e il peso della giustizia penale nello spazio pubblico e nell’arena politica; prendere una buona volta coscienza – fuori da miopie, opportunismi politici e protagonismi giudiziari – che il processo penale, la condanna e la punizione non sono gli strumenti più adatti a contrastare i mali sociali di turno, e che anzi in non pochi casi rischiano persino di provocare effetti – sia sociali sia individuali – più negativi che positivi. Non c’è bisogno di essere specialisti della materia per accorgersene. Voglio ricordare che espliciti e allarmati ammonimenti contro l’ossessione repressiva e la demagogia punitiva, tipiche dell’oppressivo e regressivo populismo penale odierno, sono stati più volte lanciati anche da Papa Francesco. 

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Non ho più l’età per fare sogni a occhi aperti, almeno in un orizzonte di vita personale. Ma come rinunciare  a qualche speranza, a qualche auspicio nell’interesse generale, ora che il nuovo anno è alle porte? Certo, al primo posto rimane la preoccupazione che in questo momento accomuna tutti, e ci fa sperare di uscire al più presto dalla persistente emergenza sanitaria. Come c’è la speranza correlata che il nostro paese riprenda progressivamente il suo cammino, lasciandosi alle spalle le plurime crisi provocate dall’emergenza.  Speranza che è suscettibile, a sua volta, di articolarsi in speranze o auspici più specifici, che ciascuno di noi vive in base alla propria sensibilità e ai propri interessi anche professionali. 
Come anziano professore di Diritto penale, e anche come garante siciliano dei diritti dei detenuti, mi piacerebbe in particolare potere confidare che il nuovo anno propizi l’inizio di una fase nuova, di una svolta nel settore della giustizia penale. Una svolta innanzitutto culturale e, dunque, negli atteggiamenti e orientamenti collettivi. Che coinvolga, nello stesso tempo, tutti gli attori del teatro penale: interpreti principali, comprimari, comparse e spettatori. In altre parole, alludo agli addetti ai lavori a partire dai magistrati, ai politici, ai giornalisti televisivi e della carta stampata, inclusi i cittadini comuni. Questo auspicabile riorientamento collettivo dovrebbe, a mio avviso, manifestarsi in una duplice direzione che provo a sintetizzare così: ridurre il ruolo e il peso della giustizia penale nello spazio pubblico e nell’arena politica; prendere una buona volta coscienza – fuori da miopie, opportunismi politici e protagonismi giudiziari – che il processo penale, la condanna e la punizione non sono gli strumenti più adatti a contrastare i mali sociali di turno, e che anzi in non pochi casi rischiano persino di provocare effetti – sia sociali sia individuali – più negativi che positivi. Non c’è bisogno di essere specialisti della materia per accorgersene. Voglio ricordare che espliciti e allarmati ammonimenti contro l’ossessione repressiva e la demagogia punitiva, tipiche dell’oppressivo e regressivo populismo penale odierno, sono stati più volte lanciati anche da Papa Francesco. 

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Per favorire una progressiva ritirata del penale dalla scena pubblica, occorrerebbe una pedagogia collettiva ad ampio spettro e di non breve durata. E, per dire le cose come stanno, non pochi esponenti del mondo politico, della professione giornalistica e, più in generale, del ceto intellettuale nostrano andrebbero subito sottoposti a corsi intensivi di diritto, in modo da essere posti in condizione di interiorizzare i princìpi basilari del costituzionalismo penale e, quindi, di sapere distinguere tra il garantismo “peloso” e il garantismo proprio di una democrazia degna di questo nome. Senza un miglioramento della cultura giuridica dei politici, del ceto colto e dei professionisti dei media, diventa ancora più difficile contrastare il giustizialismo diffuso in alcuni settori popolari e strumentalizzato dai politici populisti per ricavarne consenso elettorale. 

  
Quanto alle prospettive di un’auspicabile riforma legislativa, volendo riaprire il cassetto dei sogni tornerebbero alla luce obiettivi ambiziosi, ma per nulla dell’ultima ora, come questi: a) Riformare e ridurre drasticamente il catalogo dei reati, ampliando nel contempo il ventaglio delle sanzioni penali a carattere extradetentivo, in attuazione del principio –  da prendere finalmente sul serio! – del carcere come extrema ratio; b) Ripensare il processo penale, ridimensionando i poteri esorbitanti e poco controllabili dei pubblici ministeri; c) Modificare in profondità i canali di accesso alla magistratura e riconcepire la scuola di formazione dei magistrati, introducendo innovazioni atte a controbilanciare l’eccessiva autoreferenzialità della cultura giudiziaria. Obiettivi realistici in questo momento? Invero ancor meno di prima, specie considerando che le priorità politiche in atto riguardano la sanità e l’economia. Ma è altrettanto vero che l’incombere minaccioso di un eccessivo “rischio penale”, e di un controllo giudiziario non di rado arbitrariamente invasivo, non giovano all’efficacia e alla rapidità delle decisioni politiche, al buon funzionamento della Pubblica amministrazione e allo svolgimento delle stesse attività economico-imprenditoriali. 
Un discorso a parte andrebbe fatto sul livello culturale, sulla capacità progettuale e sul coraggio decisionale dei politici oggi al potere, ossessionati dai sondaggi e dunque  inclini più ad assecondare acriticamente le aspettative dei potenziali elettori, che non a orientarli secondo una visione autonoma e lungimirante del bene comune: il che, sullo specifico versante della giustizia penale, rischia purtroppo di perpetuare una sorta di oscurantismo pre-illuminista. 

  
Se la fase difficile che stiamo vivendo e la qualità della politica attuale non consentono di mettere prestissimo in agenda un insieme di obiettivi riformistici di grande respiro, ciò non toglie però che qualcosa anche di fortemente simbolico sul terreno della giustizia penale si potrebbe cominciare a fare sin da subito. Come ha ben rilevato l’ex ministro ed ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, nell’ambito di un’intervista rilasciata alcuni mesi fa, questa emergenza da coronavirus ha fatto riaffiorare, con drammatica amplificazione, tutti i gravi e irrisolti problemi del pianeta-carcere, a cominciare da quello del sovraffollamento: per cui proprio questa emergenza potrebbe offrire l’occasione per ripensare al carcere, riprendendo il filo delle riforme penitenziarie rimaste incompiute dopo la stagione degli “stati generali” promossa dall’ex Guardasigilli Andrea Orlando. Più di recente, si è anche assistito alla mobilitazione pacifica con sciopero della fame di Rita Bernardini e di centinaia di detenuti, cui hanno poi aderito Luigi Manconi, Sandro Veronesi e Roberto Saviano, e poi ancora 204 professori universitari di discipline penalistiche, e si è altresì aggiunto un ulteriore appello di uomini di cultura di varia matrice tra cui Gustavo Zagrebelsky e Luciano Canfora: da tutti questi fronti si è levata la richiesta, rivolta al governo e al Parlamento, di deliberare provvedimenti deflattivi idonei a prevenire nella maniera più efficace possibile la diffusione del contagio nelle carceri. Da ultimo, un appello nello stesso senso è stato lanciato dal neo-presidente della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio nel corso della sua prima conferenza-stampa (si veda il Dubbio del 19 dicembre scorso). 

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Che sia il caso di riaccendere i riflettori pubblici sulla realtà carceraria, anche al di là delle misure preventive rese necessarie dal contingente rischio pandemico, non lo ritengono soltanto i giuristi di mestiere, i garanti dei detenuti o le anime belle ipersensibili alla tutela dei diritti umani anche negli istituti di pena. Che in carcere ci finiscono molte più persone del necessario, per lo più socialmente deprivate, e per tipi di reato che richiederebbero sanzioni di altra natura;  che gli istituti penitenziari italiani in media presentano deficit di funzionamento e problemi di vario genere, tali da rendere abbastanza problematiche e ulteriormente desocializzanti le condizioni di vita intramurarie, e perciò illusoria la finalità rieducativa – tutto questo lo spiegano di recente, e assai bene, due noti direttori di carcere (Luigi Pagano e Giacinto Siciliano) in due bei libri di ricordi professionali pubblicati a poca distanza l’uno dall’altro: ciascun direttore racconta le carceri dall’interno, denunciandone disfunzioni e criticità e, nel contempo,  prospettando possibili rimedi. Auspicherei che libri così istruttivi venissero letti fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, e soprattutto da quei politici o giornalisti che discettano di carcere senza saperne in realtà nulla. Non sarebbe un inizio di svolta politico-culturale per il nuovo anno rimettersi a studiare, tornare a documentarsi e ritentare il serio lavoro d’inchiesta in sedi sia politiche sia giornalistiche?
         

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