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La distanza tra i luoghi comuni sul carcere e la realtà

Valeria Sforzini

Strutture sovraffollate, difficoltà nel creare le basi per un reinserimento in società, "bella vita" e permessi premio. Edoardo Vigna e Marcello Bortolato spiegano perché l'idea che molti hanno delle galere non coincide con la realtà 

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“Sbattiamoli dentro e buttiamo via la chiave” o “lasciamoli marcire in carcere” sono solo due degli slogan di chi vorrebbe che la pena inflitta dallo stato ai condannati si limitasse a sostituire la vendetta privata. E “Vendetta pubblica” è appunto il titolo del libro edito da Laterza scritto da Edoardo Vigna, giornalista del Corriere della Sera da 25 anni e caporedattore, e Marcello Bortolato, magistrato che dal 2017 presiede il Tribunale di sorveglianza di Firenze, hanno scritto per scardinare i luoghi comuni sul carcere e sulle pene, a partire dai dati. "Quelli che dicono 'chiudiamoli dentro e buttiamo la chiave' sono gli stessi che pensano che si viva meglio dentro che fuori. E già questa è una contraddizione", spiega Edoardo Vigna.

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“Sbattiamoli dentro e buttiamo via la chiave” o “lasciamoli marcire in carcere” sono solo due degli slogan di chi vorrebbe che la pena inflitta dallo stato ai condannati si limitasse a sostituire la vendetta privata. E “Vendetta pubblica” è appunto il titolo del libro edito da Laterza scritto da Edoardo Vigna, giornalista del Corriere della Sera da 25 anni e caporedattore, e Marcello Bortolato, magistrato che dal 2017 presiede il Tribunale di sorveglianza di Firenze, hanno scritto per scardinare i luoghi comuni sul carcere e sulle pene, a partire dai dati. "Quelli che dicono 'chiudiamoli dentro e buttiamo la chiave' sono gli stessi che pensano che si viva meglio dentro che fuori. E già questa è una contraddizione", spiega Edoardo Vigna.

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Il luogo comune vuole che in carcere ormai non ci vada più nessuno, ma i numeri mostrano una realtà diversa. Se in Italia i delitti (omicidi, rapine e furti) sono in calo da diversi anni, il dato relativo alla presenza di detenuti nelle carceri è andato nella direzione opposta. Come riportano Vigna e Bortolato, alla fine del 2015 erano 52.164, nel 2017 sono saliti a 57.608 e all’inizio del 2020 erano 61.239. L’emergenza sanitaria, tra diminuzione degli arresti in flagranza e misure cautelari, ha portato i numeri a meno 6mila unità, arrivando al 30 aprile a contare 53.904 detenuti nelle carceri italiane. Il più problema più annoso riguarda il sovraffollamento all’interno degli istituti penitenziari, una situazione resa ancora più critica dalla pandemia in corso.

  

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A chi sostiene che “Dentro si viva meglio che fuori”, rispondono i numeri: "Al 31 marzo 2020, i reclusi nei 190 istituti penitenziari italiani erano circa ottomila in più rispetto ai 50.754 posti disponibili – spiega Vigna -  Le carceri scoppiano e la pandemia ha messo ulteriormente in luce i problemi di questa promiscuità forzata. I tipi di contagio che ne possono risultare sono due: quello sanitario, che ha colpito centinaia di detenuti e agenti di polizia penitenziaria, e quello cosiddetto 'criminale'". Più i detenuti si trovano a vivere in condizioni che riflettono quelle delle “galere d’altri tempi”, più si alimenta il non rispetto dell’altro, più saranno portati a tornare a delinquere una volta tornati in libertà. Oggi per un detenuto su quattro lo spazio vitale va dai tre ai quattro metri quadri.

    

Ma se la risposta più ovvia al problema del sovraffollamento è quella di costruire nuove carceri, il fallimento di modelli come quello statunitense dovrebbe portare a riflettere sull’articolo 27 della Costituzione e sulla finalità della pena detentiva. "Il rischio è che si perda il senso della pena – continua Vigna – pensare di poter chiudere le persone dietro alle sbarre e lasciarle lì. L’obiettivo deve essere la rieducazione, il reinserimento nella società. E ci si può riuscire attraverso strumenti quali il lavoro, lo studio, il teatro e il rispetto dei diritti degli stessi detenuti".

   

Un altro luogo comune vede i condannati fare “la bella vita, a oziare tutto il giorno davanti alla tv”. "I detenuti hanno il diritto a essere oziosi, a non fare nulla, dal momento che l’unica limitazione che lo stato può imporre a un condannato attraverso il carcere è quella della sua libertà – spiega Vigna – In realtà, nella maggior parte dei casi, questi cercano di lavorare per poter accedere a benefici come la liberazione anticipata, concessa dai magistrati di sorveglianza solo ai coloro che aderiscono alle attività rieducative. In molti vorrebbero poter lavorare di più, anche per poter guadagnare uno stipendio, ma lo stato non ha ancora approntato una risposta soddisfacente a questa richiesta".

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Libero accesso a cellulari, smartphone internet? Secondo la regola non possono essere utilizzati: si può parlare solo attraverso le linee fisse per conversazioni di circa dieci minuti con i propri familiari, quattro o sei volte al mese. Ma, come sostengono gli autori,  “che i cellulari entrino illecitamente nelle carceri è un fatto innegabile”.

  

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Anche per quanto riguarda i permessi premio, ovvero le misure di semilibertà con cui i detenuti possono uscire dal carcere durante il periodo di detenzione, i pregiudizi e i falsi miti si sprecano. Ogni anno sono circa 55mila i provvedimenti di questo tipo. Le cose sono andate male, ovvero i detenuti hanno commesso reati, solo nello 0.63 per cento dei casi. A questi si aggiunge lo 0,45 per cento di mancati rientri. "Nel 98,2 per cento dei casi è andato tutto bene – spiega Vigna – bisogna anche considerare le tempistiche secondo le quali vengono assegnati i permessi premio. Non possono essere consessi prima di un certo periodo trascorso all’interno del carcere. Gli ergastolani, per esempio possono beneficiarne solo dopo dieci o quindici anni. La logica che porta a concedere permessi premio riporta sempre alla finalità di rieducazione del condannato stabilita dalla Costituzione. Non è pensabile che una persona venga tenuta in carcere senza la possibilità di avere contatti con l’esterno e poi una volta uscita, si reinserisca normalmente in società. È indispensabile prepararla e fare in modo che possa trovare un’opportunità di 'vita normale' all’esterno".

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