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Il Covid in carcere è una bomba da disinnescare. Anche con più trasparenza

Enrico Cicchetti e Maria Carla Sicilia

Detenuti trascurati, numeri confusi e poca attenzione ai dispositivi di protezione. Per evitare rivolte la pandemia va gestita coinvolgendo i detenuti e le loro famiglie, senza dimenticare volontari e professionisti che lavorano negli istituti. Il modello lombardo e l’esempio di Medici senza frontiere

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“Chi è detenuto e ha sintomi non lo dice, se riesce li nasconde. Perché se no ti tolgono anche le chiamate, non ti fanno andare in sala colloqui. Nessuno ha pensato a organizzare soluzioni alternative, né - nel nostro caso – sono state incentivate le videochiamate. Se noi familiari sappiamo poco di cosa succede, i nostri cari dentro sanno ancora meno. Sono tutti in cella, le uniche informazioni che arrivano loro sono quelle dalla tv. Anche solo spiegare qual è la situazione, quali sono i veri numeri dei contagiati, basterebbe a tranquillizzarli un po'”. Quello che dice al Foglio Federica è forse uno dei punti cruciali che riguarda il tema della diffusione del Covid nelle carceri italiane. Suo fratello è stato trasferito nel penitenziario di Busto Arsizio da quello di Opera durante la prima ondata. E lei fa fatica a sapere come sta, cosa sta succedendo dentro, quali sono i risultati dei tamponi. Il ministero non fornisce numeri ufficiali e l'amministrazione che dovrebbe tranquillizzare e informare, “non ci dice niente”, si lamenta.

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“Chi è detenuto e ha sintomi non lo dice, se riesce li nasconde. Perché se no ti tolgono anche le chiamate, non ti fanno andare in sala colloqui. Nessuno ha pensato a organizzare soluzioni alternative, né - nel nostro caso – sono state incentivate le videochiamate. Se noi familiari sappiamo poco di cosa succede, i nostri cari dentro sanno ancora meno. Sono tutti in cella, le uniche informazioni che arrivano loro sono quelle dalla tv. Anche solo spiegare qual è la situazione, quali sono i veri numeri dei contagiati, basterebbe a tranquillizzarli un po'”. Quello che dice al Foglio Federica è forse uno dei punti cruciali che riguarda il tema della diffusione del Covid nelle carceri italiane. Suo fratello è stato trasferito nel penitenziario di Busto Arsizio da quello di Opera durante la prima ondata. E lei fa fatica a sapere come sta, cosa sta succedendo dentro, quali sono i risultati dei tamponi. Il ministero non fornisce numeri ufficiali e l'amministrazione che dovrebbe tranquillizzare e informare, “non ci dice niente”, si lamenta.

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Il punto è proprio questo. “La politica del Dap sinora è stata quella di chiudere. Colloqui e contatti sono stati fortemente limitati. Giustamente”, dice al Foglio Claudio Paterniti, ricercatore dell'associazione Antigone. “Però non basta. Bisogna informare in maniera costante e capillare. Anche per evitare proteste: sia dentro (dove le rivolte della primavera scorsa hanno causato 13 morti e danni per milioni di euro) che fuori, tra i parenti. Serve trasparenza nella comunicazione. E servono più videochiamate e più telefonate”. Gli stalli con smartphone, ormai presenti in molti istituti, sembrano una strada praticabile da ampliare e stabilizzare. Il fatto che si sia iniziato a usarli solo adesso, causa pandemia, è un esempio del fossato che divide ancora il carcere dalla società. La legge che permette i dieci minuti di telefonata risale al 1975 (quando i minuti concessi erano massimo sei). Allora le interurbane avevano altri costi e la rete di telecomunicazione aveva diverse caratteristiche. Più che di una volontà punitiva si tratta della lentezza nell'aggiornare il “dentro” ai cambiamenti, anche tecnologici, del “fuori”. Ma piccole innovazioni come queste potrebbero servire a stemperare la paura e la tensione, anche perché i segnali da dietro le sbarre iniziano a farsi più preoccupanti.

 

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Il numero dei detenuti e degli operatori positivi sta raggiungendo il migliaio, con ritmi di crescita elevati. Nel 40 per cento circa degli istituti italiani c'è stato almeno un positivo tra le persone recluse e, in alcuni casi, come Poggioreale e Terni, ci sono veri focolai. Malgrado questo, il tasso di affollamento è ancora preoccupante. Ci sono circa 7.000 detenuti in più rispetto ai posti letto disponibili. Se si considera poi che alcune sezioni sono state liberate per farne spazi per accogliere i contagiati, la situazione può essere considerata ancora più difficile rispetto a quanto non ci dicano i numeri e nonostante i protocolli adottati. “Dentro le carceri – dice Paterniti – ricominciano a circolare le fake news, che poi si gonfiano nei passaparola, sui gruppi WhatsApp dei familiari, nei messaggi affidati ai social network. Si straparla di carcerati morti per Covid, di contagiati in numero assolutamente irreale. È un segno dell'ansia che inizia ad attanagliare tutti”.

  

Anche chi lavora in carcere e ogni giorno entra in contatto con i detenuti non ha una conferma ufficiale di quanti sono i positivi. Nei corridoi di Rebibbia – il più grande penitenziario di Roma, dove nemmeno i reparti gestiti da uno stesso responsabile hanno un protocollo comune per le misure anti Covid – prevale il mormorio e il timore di non lavorare in condizioni sicure, ci racconta chi frequenta per lavoro il carcere romano. Di un nuovo contagio ti accorgi se qualcuno non partecipa alle attività perché è in isolamento, ma non è mai stata fatta una riunione d’equipe con i direttori, non un incontro di aggiornamento. E d’altra parte per il personale medico e penitenziario non c'è possibilità di smart working. Dopo la prima fase emergenziale in cui le giornate dei detenuti si sono svuotate ancora di più, oggi sono ricominciate sia le lezioni scolastiche sia i laboratori organizzati dalle diverse associazioni. “Solo che all’ingresso l’unica misura è il controllo della temperatura”, dice chi entra a Rebibbia tutti i giorni. Il tampone è obbligatorio (e a proprie spese) solo per i volontari. Tutte gli altri accedono senza monitoraggio, compresi i detenuti che hanno ottenuto l’articolo 21 e lavorano fuori dal carcere. Durante le lezioni o durante i colloqui medici e psicologici le uniche precauzioni sono mascherine, distanziamento e talvolta barriere di plexiglas. “Oggi la maggior parte dei detenuti usa le mascherine di stoffa, ma chi non l'ha ricevuta da fuori si arrangia come può, usando per giorni la stessa mascherina chirurgica o sciarpe e altri indumenti”. A nove mesi dall’inizio della pandemia manca infatti una distribuzione organizzata dei dispositivi di protezione individuale che garantisca a tutti almeno una mascherina al giorno e un kit igienizzante.

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Se in quasi tutte le prigioni c’è il monitoraggio dei positivi e la quarantena per i nuovi giunti (cosa che per altro richiede spazi che spesso latitano o che ormai sono pieni), quando la situazione diventa più critica questi vengono ospedalizzati. “Le malattie infettive sono da sempre un grosso problema, in carcere: affollamento e scarse condizioni igieniche ne fanno un ottimo terreno di coltura per ogni virus. Tra l'altro sono luoghi patogeni, che creano malattie o aggravano quelle pregresse”, ricorda Paterniti. “Il Covid ha acceso un faro sul fatto che il carcere è un ambiente insalubre – aggiunge una psicologa che lavora con i detenuti di Rebibbia – Tutti i limiti che già esistevano con la pandemia non fanno che accentuarsi. Anche essere sotto organico oggi pesa più di prima: è sempre difficile seguire in modo adeguato ogni persona, ma in questo periodo in cui aumentano stress e sofferenza ancora di più”. 

  

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Ora, chiede Antigone insieme ad altre sigle, sindacati e associazioni, occorre “estendere l’affidamento in prova e i domiciliari a chi soffre di patologie pregresse”, fermo restando il vaglio della magistratura. Ma anche mandare ai domiciliari chi ha un residuo pena basso. Il decreto ristori prevede la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare speciale per chi ha meno di 18 mesi da scontare. Il problema è che su 3.359 persone che ne avrebbero il diritto, 1.157, più di un terzo, sono senza fissa dimora). “L'enorme monitoraggio che ha fatto l'Aclu negli Stati Uniti mostra come le prigioni possano diventare delle bombe sanitarie. Dunque vanno disinnescate”, continua Paterniti. “Non solo per proteggere il diritto alla salute dei detenuti ma anche quello dei cittadini fuori dal carcere: chi si ammala in cella andrà in ospedale e sarà un aggravio per il sistema sanitario”. 

   

Alcuni istituti lombardi potrebbero servire da apri pista: lì sono stati creati dei Covid-hub, centri di cura e trattamento interni al carcere, di riferimento regionale, gestiti con la collaborazione di Medici Senza Frontiere, realtà terza che in questa cornice diventa un consulente prezioso. “Oggi c'è molta più consapevolezza che durante la prima ondata”, ci dice Marco Bertotto, responsabile per gli affari umanitari di MSF. “La situazione rimane estremamente complessa ma sono state attivate subito alcune misure fondamentali e oggi il personale sanitario ha imparato a gestire meglio l'emergenza Covid”. Con la seconda ondata la collaborazione è ripresa a Bollate e San Vittore, dove il progetto si è riattivato da pochi giorni. “Da marzo a giugno scorso la collaborazione era stata estesa in altri istituti in Lombardia, Marche, Piemonte e Liguria. Abbiamo dato una mano a gestire l'aspetto metodologico del contact tracing, a definire le procedure per l’ingresso dei nuovi detenuti, ad attivare circuiti interni per passare in sicurezza dalle zone 'pulite' a quelle 'sporche' e viceversa, a ottimizzare le attività di sanificazione di tutti gli ambienti”. 

  

Una parte centrale del lavoro di Msf riguarda informare i detenuti su quella che è la pandemia oggi. Parlare del virus e di come affrontarlo, invece che fare finta di niente. “La formazione sulle misure di prevenzione e sull’utilizzo dei dispositivi di protezione è fondamentale e coinvolge tutte le persone nel carcere”. Un percorso possibile grazie anche a chi il progetto l’ha attivato: “C'è molta consapevolezza da parte del provveditorato e dell'assessorato al welfare della regione Lombardia. Ci hanno chiamati, dopo l'aiuto dato nella prima fase: siamo una voce esterna, una consulenza”. Soprattutto, conclude Bertotto, il progetto è “un segnale di attenzione, di apertura e di cura”, parole che col carcere poco spesso si incontrano.

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