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Le tre questioni lasciate aperte dall’ennesima assoluzione di Bassolino

Claudio Velardi

Perché nei confronti dell'ex presidente della Campania ed ex sindaco di Napoli i mea culpa di stampa e politica non bastano più

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Mai stato bassoliniano il sottoscritto: sempre suo amico critico, sfottente e irridente. Ma ero con lui il giorno in cui Walter Veltroni sbarcò a Napoli per le elezioni politiche del 2008, e al presidente della Regione fu chiesto di non farsi vedere in giro, per non mettere in imbarazzo il partito e i suoi candidati assiepati sul palco (Massimo D’Alema, Vincenzo De Luca, Marco Follini tra i tanti). Lui andò in piazza, mulo incassatore e testardo, e recitò la parte del bravo militante, “circondato dalla folla che l’applaude”, scrivono le gazzette dell’epoca. Così come ero con lui 15 anni prima, nel 1993, quando Giorgio Napolitano era presidente della Camera e cercò di evitare ogni contatto con il candidato sindaco del suo partito, osteggiato tra Posillipo e via dei Mille come “cafone afragolese”.

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Mai stato bassoliniano il sottoscritto: sempre suo amico critico, sfottente e irridente. Ma ero con lui il giorno in cui Walter Veltroni sbarcò a Napoli per le elezioni politiche del 2008, e al presidente della Regione fu chiesto di non farsi vedere in giro, per non mettere in imbarazzo il partito e i suoi candidati assiepati sul palco (Massimo D’Alema, Vincenzo De Luca, Marco Follini tra i tanti). Lui andò in piazza, mulo incassatore e testardo, e recitò la parte del bravo militante, “circondato dalla folla che l’applaude”, scrivono le gazzette dell’epoca. Così come ero con lui 15 anni prima, nel 1993, quando Giorgio Napolitano era presidente della Camera e cercò di evitare ogni contatto con il candidato sindaco del suo partito, osteggiato tra Posillipo e via dei Mille come “cafone afragolese”.

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Nel gelo reciproco, tra ingenui militanti che festeggiavano la pace fredda, i due presero giusto un caffè a San Domenico Maggiore. Sono con lui oggi, anche se gli abbracci virtuali che gli piovono addosso dopo le 19 assoluzioni – da Nicola Zingaretti a Andrea Orlando e Goffredo Bettini – sono talmente fastidiosi, tardivi e pelosi da risultare respingenti. Soprattutto perché vengono da un partito che dal ’93 è stato sempre accucciato sotto l’ala occhiuta e protettiva della casta dominante dei pubblici ministeri. E che ancora oggi non è in condizione – per esempio nelle parole dell’uomo che è stato Guardasigilli per 4 anni, dal 2014 al 2018, manifestando blande intenzioni riformatrici – di andare al di là di un “ci si può chiedere che cosa non ha funzionato?” di fronte al calvario del compagno di partito, cofondatore del Pd.

 

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I tre momenti fotografano emblematicamente le ragioni dell’ascesa, il lungo dominio e – almeno speriamo – il possibile declino dello strapotere giudiziario in Italia. Fasi che Bassolino accompagna con le sue evoluzioni. Nel ’93 l’aspirante sindaco vellicava i pubblici ministeri che mettevano l’Italia a ferro e fuoco, come e più di tanti suoi compagni di partito. Si scagliava contro la banda dei quattro (Gava, Di Donato, Di Lorenzo, Pomicino) e – una volta eletto – i magistrati se li portò direttamente nella giunta comunale, perché garantissero per le sue Mani Pulite (e per difesa preventiva). Nel 2008 era pienamente in azione la macchina delle inchieste che gli avrebbe consegnato col tempo finanche una certa povertà materiale (perché comunque avvocati e processi costano). E lui declamava ad libitum le formule di rito dell’impotenza della politica: “Piena fiducia nella giustizia” da felpato uomo delle istituzioni e “ho il dovere di andare avanti”, da consumato animale di potere. Nei giorni scorsi si è goduto la vittoria finale con un aplomb distaccato che dissimula appena il desiderio di vendetta: “Mi fa piacere, naturalmente: per me e la mia storia, per i miei familiari, per Napoli”.

 

Ed è su Napoli che casca l’asino. L’ultima delle 19 assoluzioni si è incastonata alla perfezione nella tempistica del ritorno di Bassolino in quella che considera casa sua, Palazzo San Giacomo. Un percorso costruito da mesi e mesi con interminabili scarpinate nei quartieri più disagiati della città, incontri casuali ma tutti certificati su Facebook con tassisti, vecchi compagni, cittadini indignati, persino con Cané (ala destra del Napoli negli anni 60, destinatario del mitico coro: “Vavà, Didì, Pelé, site ’a uallera e Cané”). Tutti nostalgici di don Antonio, che quando non cammina a piedi sale sul famigerato 140, autobus che porta a Posillipo e non passa mai, verificando che siano rispettate le distanze tra i passeggeri, sempre lasciando testimonianza social del suo sdegno e del suo impegno per la città.

 

Restano tre essenziali questioni aperte, in questa storia che per lui si annuncia a lieto fine. La prima riguarda la giustizia. Si può sperare che l’ignobile vicenda giudiziaria costringa finalmente la politica italiana, e innanzitutto il partito di Bassolino (“vittima di ss stesso”, come ha scritto Mattia Feltri), a ricostruire l’equilibrio tra i tre classici poteri dello stato di diritto, magari aggiungendoci il quarto, per evitare o attenuare lo scempio dei processi mediatici? Si può immaginare che se ne torni a parlare sul serio tra tutti, senza che ognuno sia garantista per sé e forcaiolo nei confronti del nemico? La seconda questione eternamente aperta parla della sinistra e dei suoi animal spirits. Diciassette anni di processi a Bassolino nascono nel cuore del fondamentalismo ambientalista cucinato in salsa anti industrialista e giustizialista. Mentre i Verdi di Pecoraro Scanio tenevano per le palle il governo nazionale con i loro no a tutto, un senatore comunista napoletano denunciava le presunte malefatte del presidente della Regione al soldo dei poteri forti. Ci sarebbe materia ampia per mettere per sempre al bando tutti gli “ismi”. Per la sinistra (e per Bassolino, che all’etichetta di uomo di sinistra non rinuncia) ci sarebbe da sfogliare con attenzione uno dei suoi album di famiglia, solo per vergognarsene e cambiare decisamente strada.

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L’ultima questione aperta si chiama Napoli: perché di Bassolino e dei giudici possiamo fregarcene, ma qui parliamo di una città allo stremo. Nel processo di ri-beatificazione in corso, domenica scorsa Antonio Polito, sul Corriere del Mezzogiorno, ha paragonato Bassolino a Biden. Entrambi chiamati a ricostruire lo status quo ante, una volta concluse le disastrose esperienze di de Magistris e Trump. Ora, al di là del suggestivo quanto surreale parallelo, è sbagliato l’assunto. A Napoli non c’è da ripristinare un bel niente, non ci sono da rievocare i fasti del presunto Rinascimento cittadino dei primi anni 90, e tantomeno si tratta – come dicono i miei amici intellettuali della ztl – di fare funzionare l’ordinario: togliere la monnezza e fare arrivare i bus. Napoli deve trovare il suo posto nel futuro, se mai c’è ancora qualche possibilità di agganciarlo. Per traghettare la città nel mondo che cambia, Bassolino dovrebbe rivoluzionare approccio, programmi, interlocutori, linguaggio. Ha l’intelligenza per farlo. Purché non si accontenti del burocratico indennizzo che oggi gli viene dai suoi compagni di partito, e del risarcimento dei giornali, che lo esaltano dopo averlo crocifisso. Essendo pronti a inchiodarlo di nuovo, of course, alla prima occasione utile.

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