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Fuori dal carcere i bambini

Annalena Benini

Colpevoli di marginalità, i figli delle madri detenute imparano per prima una parola: apri. La vita quotidiana “al gabbio”, i danni permanenti e la speranza di uscire da lì insieme. Passi avanti e poi indietro nella liberazione dei più piccoli. Un’inchiesta

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I bambini che crescono in carcere hanno problemi di vista. I loro occhi non sanno abituarsi a un orizzonte, perché in carcere un orizzonte non c’è. Ci sono porte di ferro, c’è il cortile con il muro alto, e oltre le sbarre delle finestre c’è un pezzo di cielo a volte, ma c’è sempre anche un altro muro grigio e livido contro cui sbattere anche lo sguardo. I bambini che crescono in carcere giocano senza orizzonte, costruiscono la prospettiva su spazi molto piccoli, e la continua luce al neon causa problemi di sdoppiamento degli oggetti e delle persone e di messa a fuoco. I pediatri devono ordinare la visita oculistica, e molto presto gli occhiali. I bambini che crescono in carcere sviluppano anche problemi di udito, perché i loro rumori non sono i rumori che sentiamo tutti noi, di chiacchiere, strada, vicini di casa, motorini che passano, vento e uccellini, persone che si incontrano, rumore di biscotti messi nel carrello del supermercato, anche canzoncine di padri sotto la doccia, ma ascoltano rumori strani, molto forti, troppo acuti: ascoltano la battitura dei ferri, quando un agente batte la sbarra metallica contro l’inferriata della finestra, o quando le altre detenute battono contro la porta di ferro per farsi aprire, o quando urlano di dolore e rabbia, quando litigano fra loro, e poi ecco il rumore delle chiavi che chiudono e delle chiavi che aprono.

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I bambini che crescono in carcere hanno problemi di vista. I loro occhi non sanno abituarsi a un orizzonte, perché in carcere un orizzonte non c’è. Ci sono porte di ferro, c’è il cortile con il muro alto, e oltre le sbarre delle finestre c’è un pezzo di cielo a volte, ma c’è sempre anche un altro muro grigio e livido contro cui sbattere anche lo sguardo. I bambini che crescono in carcere giocano senza orizzonte, costruiscono la prospettiva su spazi molto piccoli, e la continua luce al neon causa problemi di sdoppiamento degli oggetti e delle persone e di messa a fuoco. I pediatri devono ordinare la visita oculistica, e molto presto gli occhiali. I bambini che crescono in carcere sviluppano anche problemi di udito, perché i loro rumori non sono i rumori che sentiamo tutti noi, di chiacchiere, strada, vicini di casa, motorini che passano, vento e uccellini, persone che si incontrano, rumore di biscotti messi nel carrello del supermercato, anche canzoncine di padri sotto la doccia, ma ascoltano rumori strani, molto forti, troppo acuti: ascoltano la battitura dei ferri, quando un agente batte la sbarra metallica contro l’inferriata della finestra, o quando le altre detenute battono contro la porta di ferro per farsi aprire, o quando urlano di dolore e rabbia, quando litigano fra loro, e poi ecco il rumore delle chiavi che chiudono e delle chiavi che aprono.

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Non è vero che il carcere è un luogo silenzioso: è un luogo di grida e di rumore di ferro, e anche di rumore di televisione accesa, ma non il rumore che sentiamo noi fuori, nelle nostre case e nelle case degli altri, è il rumore della cella accanto che non la vedi ma è a un metro e gracchia con ferocia. C’è a volte un silenzio pauroso, diverso da ogni altro silenzio, e a volte il silenzio pauroso è interrotto da urla disperate. I bambini che crescono in carcere imparano a camminare in uno spazio minuscolo, imparano a correre tra la cella e il corridoio e faticano a concepire il movimento. Sbattono contro le cose. I bambini che crescono in carcere però imparano a parlare presto, e non a dire mamma o papà o babba, come quasi tutti gli altri che muovono le labbra, ma imparano per prima una parola difficile da pronunciare: apri. Apri è la prima parola di un bambino che cresce in carcere con sua madre, e poi: fuori, e anche: aria.

 

Andrea, che non si chiama così e che tre volte la settimana esce con i volontari, adesso la sera piange, quando sente che chiudono la porta alle otto di sera con tanti giri di chiave. Non vuole stare chiuso, e piangendo dice: apri mamma. Fino ai tre anni i bambini non se ne accorgono, di essere in carcere, non connettono le privazioni, non sanno che il mondo sta da un’altra parte. Vogliono la mamma, stanno con la mamma e vanno ai giardinetti con gli operatori la mattina, a volte vanno anche in una fattoria ad accarezzare i conigli e l’asino, ma anche le cose belle vanno calibrate, gli operatori lo sanno che non si può esagerare con la gioia. Non si può fare indigestione di cose belle perché un bambino che vive in carcere non deve sentire troppo il contrasto con la sua stanzetta che alle otto si chiude, non deve diventargli intollerabile. Ma un bambino in carcere è già di per sé un fatto non tollerabile.

 

La domanda infatti è: perché quel bambino è in carcere? Perché in Italia ci sono bambini che crescono in carcere? Sono trentatré, secondo il controllo effettuato dal ministero della Giustizia al 31 ottobre 2020, poche settimane fa. Sono stabilmente in crescita da qualche mese. Trentuno madri, trentatré bambini: ci sono due madri che hanno ciascuna con sé due figli, in due prigioni della Campania. Il 31 marzo scorso però erano cinquanta bambini: un effetto positivo del Covid-19 è stato far uscire un po’ di bambini, con le madri, dalla prigione. L’estate del 2009 è stato raggiunto il numero massimo di bambini minori di tre anni in istituto, 75, con 73 detenute madri.

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Adesso, mi spiega Sofia Ciuffoletti, filosofa del diritto, esperta del Tribunale per i minori e direttrice dell’associazione "Altro diritto", c’è una stabile tendenza al rialzo, che arriverà fino alla capienza totale dei posti. Alcuni bambini sono nati in carcere, altri arrivati molto presto in carcere, perché, mi dice Sofia Ciuffoletti, “si tutela in questo caso la dimensione biologica dell’allattamento”. Si considera che il bambino abbia bisogno della madre sopra ogni cosa per i primi tre anni della sua vita (i padri detenuti sono completamente estromessi, non esistono, non vengono presi in considerazione dall’ordinamento, si dà comunque per scontato, a livello giuridico e morale, che siano evidentemente “cattivi padri”) si protegge “il miglior interesse del fanciullo”.

 

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“Quando la dimensione biologica e quella giuridica si incontrano nascono spesso dei mostri”, pur con le migliori intenzioni. Perché questo miglior interesse del fanciullo si concretizza in una infanzia in carcere, che nessuno, nemmeno il più distratto dei legislatori, dei politici e dei cittadini può considerare un ambiente adeguato alla crescita di un bambino. Non è ancora morte, ma non è più vita, ha scritto una volta Adriano Sofri, e com’è possibile accettare, senza una vera discussione, l’idea che in questo momento ci siano trentatré bambini che si addormenteranno questa sera in un istituto penitenziario, e al risveglio non potranno aprire la porta finché un’agente di custodia non arriverà con le chiavi? A meno di ritenere bambini di dieci mesi, o di due anni, colpevoli di qualcosa. Colpevoli di avere una madre detenuta. Colpevoli di famiglia incasinata. Colpevoli di marginalità.

 

I bambini in carcere sono, formalmente, degli ospiti nella struttura, formalmente sono liberi, come la piccola Dorrit di Dickens, cresciuta accanto al padre imprigionato per debiti, “ma la loro pena non è diversa da quella delle loro madri”, mi spiega Sofia Ciuffoletti, ed è una cosa molto evidente, e semplice da capire, ma per capirla bisogna guardarla. Un bambino è in carcere e segue le regole del carcere perché la madre è in carcere, perché è nato in carcere, perché ha bisogno di sua madre ma questo bisogno viene poi brutalmente ignorato quando diventa troppo grande per stare in carcere. Se la madre deve restare in carcere, il bambino viene portato in una casa famiglia, e poi dato in affidamento a una nuova famiglia. Tutto secondo le regole, tutto senza il pensiero sostanziale di avere fatto, proteggendo il miglior interesse del fanciullo, un enorme danno al fanciullo. Un danno che concima le radici della sua esistenza.

 

Mi dice Silke Stegemann, psicoterapeuta berlinese e referente di Bambini e carcere di Telefono Azzurro per il territorio fiorentino, che se un bambino esce da lì, dalla sezione Nido, a tre anni di vita, non avrà ricordi, come noi non abbiamo ricordi della nostra primissima infanzia. Ma avrà flashback, sensazioni, paure improvvise, qualcosa di importante che si è piantato dentro. “Il carcere, anche nella forma degli istituti a custodia attenuata, è come un vaso rotto che continuiamo a incollare, anche con cura, e quindi è pieno di crepe ma ancora ci mettiamo dentro i fiori, e l’acqua dopo un po’ ricomincia a uscire dalle crepe, come esce umidità dalle pareti delle stanzette per i problemi di infiltrazioni del carcere di Sollicciano, dove in questo momento ci sono due bambini con le loro mamme. I fiori che mettiamo nel vaso crepato sono i bambini. Se lei mi chiede: quel vaso crepato è il posto adatto per un bambino? io con onestà non posso che rispondere che, con tutto l’impegno e gli adattamenti, i giocattoli, le pareti dipinte di azzurro, certo che no: non lo è e non lo sarà mai”, spiega Silke Stegemann, che pur nella ricerca caparbia e collettiva delle migliori condizioni, che tutelino la relazione dei bambini con le madri e che anche favoriscano un sano distacco, qualche ora di respiro (ventiquattro ore su ventiquattro con il proprio bambino in un posto chiuso, senza altri filtri, senza la prospettiva di un pomeriggio di libertà, senza un proprio spazio, non sono salutari nemmeno in una condizione diversa dalla detenzione), pur nel tentativo costante, insomma, di incollare i pezzi del vaso e di ottenere altri spiragli – e le videochiamate sono uno spiraglio, ma ne parleremo dopo – si batte per “il pensiero che sta alla base”: è il pensiero che sta alla base che va modificato. E’ il pensiero che un bambino possa stare in carcere che va abbandonato. Il pensiero di chi lo consente, e anche il pensiero di chi ascolta distratto e dice: trenta, quaranta, cinquanta, sessanta, settanta bambini, che sarà mai?

 

Luigi Manconi, professore, ex senatore del Pd e presidente dell’associazione "A buon diritto", li chiama con amore e con rabbia “i bambini galeotti”, e vede nella loro detenzione la prova dell’insensatezza e della ferocia del carcere: l’idea assurda di una riabilitazione di un essere umano adulto mentre si impone il danno esistenziale alla crescita di un bambino. L’Organizzazione mondiale della Sanità ha codificato negli ultimi anni un preciso riconoscimento: “Oggi sappiamo che il periodo che va dalla gravidanza ai 3 anni di vita di un bambino è il più critico, perché è in questo periodo che il cervello cresce più velocemente che in ogni altro periodo della vita: l’80 per cento del cervello di un bambino si forma in questo periodo. Per uno sviluppo sano del cervello in questo periodo i bambini hanno bisogno di un ambiente sicuro, protettivo e amorevole, di alimentazione e stimoli adeguati da parte dei genitori o dei caregiver”. E’ un documento molto approfondito, che scatena infinite considerazioni, e che termina così: “Nel periodo che va dalla gravidanza ai 3 anni di età i bambini sono maggiormente sensibili alle influenze dell’ambiente esterno. Si tratta di un periodo che getta le basi per la salute, il benessere, l’apprendimento e la produttività di un individuo per tutto il corso della sua vita, e che ha un impatto anche sulla salute e sul benessere della generazione successiva”.

 

 

Questo periodo che getta le basi per la salute e il benessere del nostro futuro è lo stesso periodo in cui è istituzionalizzato che i bambini stiano in carcere con la madre, e anzi questo periodo in determinate circostanze viene prolungato fino ai sei anni di età del bambino, e a volte anche oltre, nel caso in cui la madre sia sottoposta a pene esecutive. Ci sono bambini che vanno a scuola la mattina, accompagnati dai volontari, e che alla domanda del compagno di banco o del nuovo amichetto, e tu dove abiti? la prima volta rispondono con candore assoluto: al gabbio con mamma, e poi cominciano a vergognarsi, a negare, e anche a rifiutare quel rapporto simbiotico e quel luogo livido, e a soffrire. La sera tirano calci alle porte. Corrono incontro agli educatori perché hanno capito che loro possono uscire. E la notte diventa anche per loro il regno degli incubi. La scoperta del mondo, in questo caso, passa attraverso la vergogna e il dolore. Il cielo si squarcia e un bambino scopre di non essere un bambino, ma un detenuto bambino. Si scopre che quel muro è una cosa brutta, non solo perché è brutta ma perché tutti la considerano brutta. La seconda domanda allora è: si può essere abbastanza piccoli per stare in carcere eliminando il dolore del carcere? e la risposta è: no.

 

E’ la risposta semplice che si fonda su un principio, ma è la risposta che darebbero anche tutti coloro a cui questo principio non interessa affatto, se solo vedessero che cos’è un carcere. “Visite guidate, cacce al tesoro, escursioni zoologiche. Non migliorate niente delle carceri: solo, fatele vedere a tutti”, dice Adriano Sofri, e allora adesso insieme entriamo nelle carceri, e nel sistema legislativo, e negli Icam, Istituti a custodia attenuata per detenute madri, e nel cuore delle persone e delle associazioni che cercano di migliorare la vita dei bambini in carcere, bambini detenuti perché colpevoli di marginalità. Anna Finocchiaro, ministro per le Pari opportunità durante il governo Prodi, presentò per la prima volta alla Camera nel 1997 il disegno di legge “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori”, che dopo quattro anni, l’8 marzo 2001, è stato definitivamente approvato. Una legge mossa dal principio che maternità e infanzia sono incompatibili con il carcere, e spiegata in modo chiaro: “L’ingresso in carcere dell’infante, volto a non interrompere la forte e insostituibile relazione con la madre, non solo non è apparso risolutivo del problema, poiché comunque non fa che differire il distacco dalla madre, rendendolo semmai ancor più traumatico, ma è addirittura dannoso per lo sviluppo psicofisico del bambino, il quale viene incolpevolmente a trovarsi collocato in un ambiente punitivo, povero di stimoli e connotato dalla privazione di autorevolezza della figura genitoriale”.

 

 

La legge Finocchiaro, poi modificata nel 2011, stabilisce che “le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse a espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli (…)”. Dopo un anno e mezzo Anna Finocchiaro e altri deputati presentarono un’interrogazione parlamentare in cui si evidenziava che “la legge risulta pressoché inapplicata, mentre sale il numero dei bambini d’età inferiore ai 3 anni detenuti in carcere insieme alle madri”. Dopo vent’anni, i luoghi di cura, assistenza e accoglienza per le madri detenute e i loro bambini sono pochissimi (uno è a Roma, una villa confiscata alla mafia, è un posto bello: la casa famiglia Leda Colombini, in memoria di Leda che ha dedicato la sua vita ai deboli, e quindi anche ai bambini in carcere, li ha portati al mare, ha assistito alle loro scoperte e alla loro gioia, si è battuta per i loro diritti, ed è morta una mattina uscendo da Regina Coeli, dopo una riunione per eliminare le rigidità delle uscite dei bambini. Leda Colombini era nata nel 1929, a Fabbrico di Reggio Emilia in una famiglia di braccianti poveri, e subito dopo le elementari era già una piccola bracciante, con tre sorelle e una madre sola.

 

Grazie a lei centinaia di bambini sono usciti dal carcere, grazie a lei negli anni Novanta si sono aperte le porte dei nidi comunali esterni per i bambini detenuti. Leda Colombini si ricordava sempre di una bambina che cercava di mettersi la neve in tasca per portarla a sua madre in carcere. Purtroppo, spiega Sofia Ciuffoletti, che va in carcere ogni giorno, “è un problema sostanziale che contribuisce ad alimentare un contesto terrificante, perché in carcere con i figli ci finiscono quelle donne che appartengono a una marginalità sociale particolarmente caratterizzata: non hanno un domicilio, possono reiterare il reato che quasi sempre è legato alla droga o alla prostituzione, non hanno famigliari a cui affidare i bambini e soprattutto sono vittime di un pregiudizio spaventoso, di una dinamica di pensiero che se adottata non al bar ma nel mondo giuridico e nell’ideologia normativa, tra gli uomini e le donne che prendono decisioni, è ancora più grave: il pregiudizio che considera i figli strumentali per queste madri. Strumentali per evitarsi la galera, strumentali per ottenere dei vantaggi personali. Una relazione strumentale, dunque, che l’ordinamento alimenta e rende simbiotica fino almeno ai tre anni di vita. Queste donne non sono considerate rieducabili, e c’è già nei loro confronti un terribile giudizio morale: cattiva madre. Questo giudizio morale sulla madre si concretizza nel danno esistenziale del bambino”.

 

Cattiva madre, eccoti qui. Il tuo mondo è deteriore: ecco il pensiero discriminatorio, il giudizio tra il morale e l’ideologico. Non può esistere una relazione affettiva, non c’è granché da recuperare, non c’è nemmeno un posto dove stare: sei fortunata, c’è il carcere. “Dovremmo cominciare a discutere dei confini giuridici del concetto di ‘cattiva madre’ e promuovere un dibattito culturale per la decostruzione di questa categoria, usata ancora oggi con troppa facilità, spesso dai maschi, per etichettare le madri”, dice Ciuffoletti. Il figlio di una di queste cattive madri, che chiameremo Akin, è nato nel carcere di Sollicciano, Firenze, ed è sempre vissuto lì. Gli operatori ne parlano adesso con commozione, come di una ferita. Hanno fatto di tutto, ma non sono riusciti a salvare quella relazione tra madre e figlio. La madre non ha accesso alle misure alternative al carcere, per un reato legato alla prostituzione, ma ha questo bambino splendido, Akin, davvero splendido e amatissimo da lei e da tutti i volontari. Anche Akin amava moltissimo sua madre, e comunque “quando nasci in carcere hai solo tua madre”. Al compimento dei tre anni di età, nessuno ha osato staccarli, nessuno ha osato portare Akin lontano da sua madre. “Ti strappava il cuore”, dice Sofia Ciuffoletti.

 

Hanno continuato a fare istanze per farla uscire dal carcere, ma sono state tutte respinte. A sei anni Akin ha iniziato ad andare a scuola, accompagnato dagli operatori, felice di andarci, e adorato dalle maestre e dai compagni, che lo invitavano a giocare a casa il pomeriggio, poiché loro avevano una casa, e lui non poteva mai perché casa sua era il carcere. Akin ha capito a sei anni che il carcere non è un posto normale in cui tornare. E’ stato molto doloroso. Tutta quella bellezza, quell’entusiasmo, quella meraviglia dentro il vaso crepato e reincollato ogni giorno, veniva messa in pericolo dalle regole del carcere. Quell’attaccamento biologico, di sangue e di latte e di vita quotidiana, allora era stato sempre finalizzato al nulla? Un giorno Akin è stato portato via, in una casa famiglia che è un posto migliore di un carcere perché non è un carcere, che è il posto in cui le madri con i loro figli dovrebbero stare, e infatti gli hanno detto: poi tua madre ti raggiungerà, ma non è mai successo perché questa madre non è stata ammessa alla casa famiglia. Akin dopo un po’ di tempo è stato dato in affidamento a una nuova famiglia. E’ passato altro tempo. E sua madre, adesso?, chiedo a Sofia Ciuffoletti, che si rabbuia. “Loro due non hanno più rapporti significativi, fanno ancora qualche incontro protetto, ma la relazione si è interrotta”.

 

La relazione si è interrotta dopo che è stata resa simbiotica: come quando si tolgono i gattini alla madre che li ha allattati fino al minuto prima. Forse si ritiene che le cattive madri siano come i gatti, che si dimenticano dei loro figli. Forse si ritiene che questi bambini siano come i gatti, che si dimenticano delle loro madri. La legge Finocchiaro, approvata quasi vent’anni fa, stabilisce l’esatto contrario di questo principio dei gatti, ma dopo vent’anni e altre modifiche, e dopo la nuova legge del 2011, ci sono bambini che nascono e crescono in carcere e che trascorrono in carcere il tempo del lockdown, quello in cui ognuno di noi si è avvicinato, in maniera molto parziale, alla scoperta di che cosa significhi stare chiusi dentro. Ma qualunque senso di oppressione proviate chiusi nelle vostre case, piccole o grandi, belle o brutte, soli o in compagnia, dovreste resistere alla tentazione di dire: mi sento in prigione. Abbiate rispetto per chi sta in prigione. Abbiate orrore per la prigione dei bambini. A partire dal lockdown dello scorso marzo, quasi tutti i genitori sono insorti per l’ora d’aria dei propri figli, e hanno denunciato molte sofferenze, molto disagio, molta oppressione, hanno invocato gli alberi, gli amichetti, le passeggiate, la scuola, la città e la campagna, ma soprattutto: la socialità. Dentro il carcere ci sono bambini per cui il lockdown significa che nessun operatore può portarli ai giardinetti, nessun operatore può andare lì a giocare, nessun famigliare può andare in visita. Il lockdown sospende il volontariato.

 

E succede anche che le madri rifiutino le visite per il terrore del contagio. Tutto questo avviene anche negli Icam, gli istituti a custodia attenuata per detenute madri, strutture introdotte nel 2011, spesso dentro al carcere stesso, ma con personale non in divisa, e con le pareti della zona comune colorate, con i giocattoli e i libretti per i bambini. E’ meglio del carcere? Sì, certo, quasi tutto è meglio del carcere, ma l’Icam è un luogo penitenziario a tutti gli effetti, con gli orari, gli agenti, molti giri di chiave, alle otto di sera si chiude, alle otto di sera un bambino viene rinchiuso con la madre, fino alla mattina dopo. “In Icam i bambini possono rimanere fino ai 6 anni di età se la madre è in misura cautelare e fino ai 10 anni se la madre è in esecuzione pena. Abbiamo innalzato l’età dei bambini incolpevoli reclusi in un istituto penitenziario”, dice Sofia Ciuffoletti. L’Icam è un luogo, spiega Silke Stegemann, che non deve diventare la soluzione finale: “Posso creare un contesto carino, posso portare dei mobili decenti, posso chiedere di chiudere le crepe che ogni volta si riaprono, posso portare i bambini in una fattoria il sabato mattina, ma non posso dire: va bene così, devo continuare a pretendere soluzioni alternative”. La casa famiglia lo è, perché non è un carcere. Perché le madri detenute possono incontrare madri che si trovano lì per altre problematiche, e ampliare i loro orizzonti, modificare le relazioni, capire che esiste qualcosa di diverso dalla detenzione.

 

Una finestra per lasciar passare la luce, delle routine che siano rassicuranti anche per i bambini, come pranzare insieme in cucina e non nelle celle. Negli Icam questo avviene a fatica, ed è invece per questo che si lavora e che si cerca di aggiustare di continuo il vaso crepato. Le videochiamate, dicevamo: le videochiamate durante il lockdown hanno permesso ai bambini in carcere di mostrare i loro giocattoli alle persone del mondo fuori, o dell’altro mondo dentro. I padri hanno visto dove giocano i loro figli, c’è stata per la prima volta la condivisione della quotidianità: è una piccola cosa, ma è gigantesca. Non erano mai entrati, prima, gli uni nelle vite degli altri. “E’ importante – spiega Silke Stegemann – che le madri e i padri detenuti sappiano che anche lì dentro restano genitori, è importante che sappiano che quel rapporto non gli viene strappato, e anzi che hanno il dovere di conservarlo”. E’ importante non solo per i bambini, è importante per la dignità degli adulti: io sono un padre, io sono una madre, non sono soltanto un detenuto, non ho perso tutto e ho molto da riprendermi. Ci si batte, in tutta Italia, per contrastare gli impedimenti fisici, ci si batte anche perché le visite siano concesse un pomeriggio alla settimana, e non solo la mattina, in modo che i bambini e gli adolescenti non debbano saltare la scuola per andare in carcere dai genitori e dai fratellini, vergognandosene, ci si batte perché i colloqui avvengano anche la domenica (a Sollicciano ci sono riusciti, una volta al mese), ci si batte perché sia permesso, come accade in altri luoghi in Europa, che un operatore aspetti al cancello l’adolescente minore, lo accolga e lo accompagni al colloquio con la madre o con il padre, e poi lo riaccompagni fuori, in modo che quel legame non sia continuamente filtrato da un terzo. Incontrarsi dentro, finché non si può uscire fuori.

 

Ci si batte perché si trovino per i bambini e le loro madre soluzioni alternative al carcere, come è stabilito dalla legge. Basterebbero un milione e mezzo di euro, ripete Luigi Manconi, per ristrutturare spazi già esistenti, creare cinque o sei case famiglia in cui si possa ricominciare a vivere, e prepararsi alla vita fuori. Adesso nel carcere di Sollicciano sono rimasti due bambini piccoli, coetanei. Hanno un legame molto stretto, come fossero fratelli. Giocano insieme, e a volte mangiano insieme, escono insieme con gli operatori, vanno ai giardinetti alle nove e trenta del mattino. Tra sei mesi compiranno tre anni, e intanto regalano a tutti le cose migliori che un essere umano ha: la luce nello sguardo, l’amore a prima vista, l’intelligenza dell’infanzia, la voglia di giocare, la capacità di meravigliarsi. E’ una cosa bella, ed è una enorme preoccupazione per tutti. Tra sei mesi che cosa succederà? Tra sei mesi, ed è già tardi, il mondo deve mantenere le sue promesse. Giovedì scorso, intanto, è arrivata in carcere una bambina, con sua madre. Ha quattro mesi.

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