Ergastolo a Matteo Messina Denaro per le stragi di Capaci e via D'Amelio. Processo a un fantasma
Non c'è abitazione, garage, anfratto che non sia stato perlustrato a Castelvetrano e dintorni. Ma del boss in carne e ossa, latitante dal 1993, nessuna traccia
Chissà come avrà appreso la notizia. Chissà se ha saputo del verdetto mentre era seduto sulla poltrona di casa, in ufficio o, per alimentare la leggenda che lo accompagna da decenni, al caldo di una spiaggia tropicale. Sarà stata la mezzanotte di ieri come in Italia, per la precisione a Caltanissetta, oppure giorno? Dipende dal fuso orario del paese in cui si nasconde. Matteo Messina Denaro è stato condannato all'ergastolo dalla Corte di assise nissena quale mandante delle stragi di Capaci e via D'Amelio. Sono trascorsi ventotto anni e c'è un nuovo colpevole.
Gli sarà bastato un collegamento Internet per accorgersi che il suo nome e la sua faccia sono ancora una volta in prima pagina. Messina Denaro non è solo l'ultimo dei padrini latitanti, ma anche l'ultimo personaggio che fa della mafia siciliana un argomento meritevole della ribalta mediatica nazionale. Purtroppo, però, si processa un fantasma. Da anni non ci sono tracce concrete della sua presenza sul territorio. Un silenzio che fa a pugni con il frastuono mediatico.
Gli hanno arrestato fratelli, sorelle, cognati e amici. Già nel 2006 di suo pugno scriveva a Bernardo Provenzano che “qui stanno arrestando pure le sedie”, ma Messina Denaro sembra disinteressato alla sorte dei familiari. Non c'è attività economica finita sotto sequestro nel raggio di chilometri in terra trapanese, dal piccolo negozio di borgata al grande impianto di energie alternative, che non sia stata ricondotta al latitante. Se non si fa il suo nome le notizie non hanno appeal. Non c'è abitazione, garage, anfratto che non sia stato perlustrato a Castelvetrano e dintorni. Niente, neppure un pizzino, una pista sbiadita che conduca al latitante. Eppure con cadenza regolare salta fuori il mafioso che, intercettato, dice di averlo incontrato. I racconti si fanno inverosimili. Il latitante che tutti cercano se ne va a caccia con il fucile caricato a pallettoni oppure gioca a briscola nell'officina di un meccanico. A parlare a ruota libera sono boss di primo piano, braccati dagli investigatori dal primo istante in cui mettono piede fuori dal carcere.
Dal 2010 pende sulla testa del capomafia una taglia dei servizi segreti. Allora l'informazione giusta per la cattura valeva un milione di euro, ora molto di più. Soldi che fanno gola. Sul tavolo dei magistrati di Palermo che coordinano le ricerche del fuggitivo si accumula una montagna di segnalazioni. Lo hanno visto negli Stati Uniti, in Guatemala, Spagna, Francia, Jugoslavia e Svizzera. Di lui hanno detto che si è rifatto il volto, la voce e i polpastrelli delle mani. Niente, di Messina Denaro, quello in carne e ossa, nessuna traccia. È latitante dal 1993, quando andarono a notificargli l'ordine di arresto per le stragi a Roma, Firenze e Milano. I malpensanti ripetono la litania che non lo vogliono arrestare perché se si pentisse uno come lui crollerebbe il sistema che si regge su segreti inconfessabili e patti sporchi.
Sarebbe ingeneroso nei confronti dei tanti uomini e donne che sacrificano tempo e affetti per acciuffarlo ipotizzare che ci sia sempre qualcuno pronto a spifferare all'orecchio del latitante la dritta per farlo scappare, facendosi beffa della macchina investigativa che gli dà la caccia. Ci vorrebbe una gola profonda in mille stanze. Anche oggi, nel giorno della condanna al 'fine pena mai' per l'assassinio di Giovanni Falcone, Francesco Morvillo e degli agenti di scorta c'è chi sosterrà che qualche infingardo di stato lo stia aiutando. Si può solo sperare che tutto ciò finisca presto, con il suo arresto. Chissà come e dove avrà appreso la notizia della condanna. E chissà se la sua faccia sia ancora somigliante al ritratto appeso alla parete della casa materna, stile Andy Wharol e con tanto di corona in testa.