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“L’accusa conta più della difesa”. La sentenza della Cassazione che indigna i penalisti

Ermes Antonucci

Le perizie dei consulenti dei pubblici ministeri hanno la priorità su quelle della controparte, scrivono i giudici mettendo nero su bianco un principio in contrasto con la Costituzione: la parità delle parti 

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Non accenna a placarsi l’indignazione dell’avvocatura italiana nei confronti di una recente sentenza con cui la terza sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato un principio che ha dell’incredibile: nel processo la perizia del consulente del pubblico ministero vale più di quella della difesa, alla faccia del principio della parità delle parti e del giusto processo. Con la sentenza (n. 16458/2020), gli ermellini hanno respinto il ricorso di una signora barese condannata in appello per aver demolito e poi ricostruito un fabbricato in una zona con vincolo paesaggistico. Gli avvocati della donna avevano presentato ricorso sostenendo, sulla base di una consulenza di parte, che l’opera rientrava nella categoria degli interventi di manutenzione straordinaria o, al più, di restauro e risanamento conservativo. Secondo la difesa, nel condannare la donna i giudici non avevano prestato alcuna attenzione alla consulenza di parte, preferendo apoditticamente la perizia disposta dal pm. La Corte ha però dichiarato inammissibile il ricorso affermando che le conclusioni tratte dal consulente del pm, “pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa”.

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Non accenna a placarsi l’indignazione dell’avvocatura italiana nei confronti di una recente sentenza con cui la terza sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato un principio che ha dell’incredibile: nel processo la perizia del consulente del pubblico ministero vale più di quella della difesa, alla faccia del principio della parità delle parti e del giusto processo. Con la sentenza (n. 16458/2020), gli ermellini hanno respinto il ricorso di una signora barese condannata in appello per aver demolito e poi ricostruito un fabbricato in una zona con vincolo paesaggistico. Gli avvocati della donna avevano presentato ricorso sostenendo, sulla base di una consulenza di parte, che l’opera rientrava nella categoria degli interventi di manutenzione straordinaria o, al più, di restauro e risanamento conservativo. Secondo la difesa, nel condannare la donna i giudici non avevano prestato alcuna attenzione alla consulenza di parte, preferendo apoditticamente la perizia disposta dal pm. La Corte ha però dichiarato inammissibile il ricorso affermando che le conclusioni tratte dal consulente del pm, “pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa”.

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Secondo gli ermellini, infatti, il pm, “pur nell’ambito della dialettica processuale, non è portatore di interessi di parte”, come gli avvocati, e dunque le valutazioni del proprio consulente “rivestono una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio”. Ciò sarebbe confermato dall’obbligo del pm di ricercare anche le prove a favore dell’indagato, stabilito dall’articolo 358 del codice di procedura penale, e dal fatto quindi che la pubblica accusa avrebbe “per proprio obiettivo quello della ricerca della verità”. 

 

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Chiunque abbia una conoscenza minima di come funzioni la macchina giudiziaria sa bene che la norma che impone al pm di svolgere accertamenti a favore della persona indagata è da sempre lettera morta, che il pm mira non a “ricercare la verità”, ma piuttosto a cercare conferme per le proprie tesi accusatorie, e che nel processo penale all’italiana (quello formalmente accusatorio, ma nella sostanza segnato da profondi residui inquisitori) l’accusa continua a rivestire una posizione di superiorità rispetto alla difesa, a dispetto del principio di parità delle parti. 

 

La sentenza della terza sezione penale della Cassazione, quindi, non dovrebbe sorprendere più di tanto gli operatori della giustizia e gli osservatori più attenti. A colpire, però, è la tranquillità con cui la Cassazione ha voluto mettere nero su bianco un principio in evidente contrasto con la nostra Costituzione. “C’è un piccolo particolare – ha notato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali – e cioè che la parità delle parti (pm e imputato) davanti al giudice terzo è il comando inequivoco dettato dall’art. 111 della Costituzione. E questa sentenza, ed il principio che essa afferma, letteralmente si fa beffe, ed anzi sovverte, quanto preteso senza equivoci dalla nostra Costituzione”.  “Non si comprende – ha aggiunto il presidente dei penalisti – per quale misterioso motivo il parere dell’esperto balistico o chimico o tanatologico nominato dal pm dovrebbe avere valore e attendibilità scientifiche superiori a quelle dei suoi colleghi nominati dalla difesa. Al contrario, nel proprio sforzo confutativo della tesi accusatoria è assai frequente che l’imputato, soprattutto se è in grado di sostenerne le spese, nomini consulenti più qualificati, e spesso di gran lunga più qualificati, di quelli nominati dall’ufficio di procura”. 

 

La verità, come notato sempre da Caiazza, è che assegnare un vantaggio all’accusa e un pesante handicap alla difesa “la dice lunga sulla idea che i giudici nutrono, nel nostro paese, del processo accusatorio”: “La magistratura italiana è, davvero con rarissime eccezioni, irrimediabilmente ostile al sistema processuale accusatorio, all’idea del processo delle parti, alla formazione della prova in dibattimento in un contraddittorio paritario”. 

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Nell’Italia forcaiola e spazza Stato di diritto, desiderata e realizzata dai grillini, può capitare anche questo, cioè che la Cassazione stabilisca esplicitamente un principio tanto semplice quanto aberrante: l’accusa conta più della difesa. 

 

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