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Vivere senza vita

Francesco Palmieri

La storia estrema di Raffaele Cutolo, sanguinario boss della camorra ora paralizzato dalla demenza senile, da quarant’anni in isolamento

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“Il soffrire insegna a capire la vita e gli uomini” (Raffaele Cutolo, “Poesie e pensieri”)

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“Il soffrire insegna a capire la vita e gli uomini” (Raffaele Cutolo, “Poesie e pensieri”)

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Settantotto, cinquantacinque, trentotto è il terno fatale di Raffaele Cutolo: gli anni anagrafici, quelli vissuti in carcere e quelli di carcere duro. Non c’è premessa più esplicita e più ambigua di questi tre numeri alle parole che verranno. Esplicita, perché riassume la spaventosa biografia di un uomo che ha passato molto più tempo in prigione che fuori e più in regime di detenzione speciale che in prigione; ambigua, perché in cella il potere criminale di don Raffaele si plasmò, crebbe, decrebbe e restò ciò cui si è ridotto: mera leggenda di se stesso.

 

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Una leggenda che spiega come mai il Tribunale di sorveglianza abbia nuovamente negato gli arresti domiciliari per motivi di salute a un uomo forse morente, senza più clan né pistole, senza sicari, privo ormai di segreti che minaccino qualcuno. Lo hanno trasferito per problemi respiratori dal carcere all’ospedale di Parma dove però, per le disposizioni dell’articolo 41 bis introdotte nel ’92, neanche la moglie Immacolata, visitandolo, l’ha potuto sfiorare. Né avrebbe potuto farlo la figlia Denise, nata tredici anni fa grazie all’inseminazione artificiale.

 

“Nel caso di Cutolo si mischiano farsa e tragedia”, commenta l’avvocato Gaetano Aufiero, che lo assiste da venticinque anni. Colui che fu un tempo il temutissimo capo della Nco, la Nuova camorra organizzata, non è stato capace, il 7 agosto scorso, di riconoscere Immacolata Iacone, sposata nel 1983: l’ha scambiata per la cognata morta, anche se ricordava cosa aveva mangiato a pranzo e il numero dei propri (nove) nipoti. Una conversazione surreale, che secondo le prescrizioni del 41 bis non è potuta durare più di un’ora, con una telecamera installata per videoregistrarla e tre uomini del Gom (il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria) attorno al capezzale di Cutolo, i quali hanno frapposto le sedie fra il letto e la moglie per evitare foss’anche un bacio o una carezza, poiché il regime differenziato proibisce ogni contatto fisico.

 

Peggio era andato il colloquio del 22 giugno scorso, l’ultimo in cui Cutolo incontrò la figlia: dei sessanta minuti a disposizione (consentiti una volta al mese) ne furono usufruiti solamente quindici, perché la ragazza cominciò a piangere a dirotto quando il padre non la riconobbe mentre si rivolgeva alla mamma chiamandola “dottoressa”. Susciterà forse, il caso, ulteriori spunti circa l’opportunità di rivedere una norma dell’ordinamento penitenziario che nacque con intenti emergenziali e appare scricchiolante dopo le ripetute pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale, fermo restando l’obiettivo di impedire le comunicazioni tra un detenuto di particolare pericolosità e la sua associazione criminale fuori e dentro il carcere.

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“Nel caso di Cutolo si mischiano farsa e tragedia”, commenta l’avvocato Gaetano Aufiero, che lo assiste da 25 anni.

“Non metto in discussione, da avvocato, il principio del 41 bis: sappiamo che un boss, persino partecipando a distanza a un processo, potrebbe mandare messaggi all’esterno. Ma perché, per esempio, limitare i colloqui con i congiunti a un’ora al mese, considerando che sono videoregistrati e si svolgono alla presenza di agenti specializzati?”, osserva l’avvocato Aufiero. “Forse dovremmo avere la schiettezza di ammettere che il 41 bis può anche rappresentare una forma di tortura o fungere da dissuasivo per indurre a collaborare. Per non parlare dei casi in cui è applicato a detenuti in attesa di giudizio. E se vengono assolti? Vogliamo almeno attendere la sentenza di primo grado?”.

Oggi sono circa 750, in 23 strutture sul territorio nazionale, i carcerati in regime di 41 bis, del quale si valuta la proroga caso per caso ogni due anni. Si può opporre ricorso al decreto ma i tempi sono scoraggianti: l’udienza di Cutolo al Tribunale di sorveglianza di Roma è stata finalmente fissata il 13 agosto scorso per il 2 ottobre prossimo, giusto un anno dopo la presentazione dell’istanza.

 

I 38 anni d’isolamento di don Raffaele, già al carcere duro prima che il 41 bis fosse varato, sono frutto anche della volontà, più volte ribadita, di non collaborare con la giustizia e non pentirsi “se non davanti a Dio”. Chi ha scelto un’altra strada, anche fra i mafiosi più spietati, ha incontrato sorte molto più favorevole: uno per tutti il corleonese Giovanni Brusca, che pigiò il tasto del telecomando nella strage di Capaci e sciolse nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo. Gode da anni di permessi per buona condotta e tornerà libero alla fine del 2021.

 

Cutolo invece, secondo i giudici, non solo non ha mai rinnegato le sue scelte, ma “ha mantenuto pienamente il carisma” e tuttora rappresenterebbe “un simbolo” per la criminalità che s’ispira al suo nome. Sicché il corpo fisico del camorrista par excellence sconta il mito incorporeo di se stesso. E’ il dramma senza tempo del prigioniero imperdonabile e della legge che s’oppone alla leggenda: la Maschera di Ferro alla Bastiglia, Cagliostro a San Leo, Napoleone a Sant’Elena, Rudolf Hess a Spandau impersonarono il Male ciascuno a suo modo.

 

Lo impersonarono i regicidi di Umberto I di Savoia: Giovanni Passannante, che fallì l’attentato e fu fatto impazzire in una cella d’isolamento sotto il livello del mare; Gaetano Bresci, che riuscì a uccidere il sovrano, morì suicida o forse assassinato nel penitenziario di Santo Stefano, benché perennemente sorvegliato a vista come lo sono oggi i sottoposti al 41 bis. Certo è che si continuerà a discutere sulla compatibilità della norma con l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

 

Per ora l’ombra leggendaria del professore di Ottaviano prevale sul suo corpo malato. Già a febbraio scorso era stato ricoverato d’urgenza per una polmonite e dice l’avvocato che “lo presero per i capelli”; adesso il responsabile del reparto detentivo dell’ospedale di Parma ha constatato uno stato di demenza senile ed è stata autorizzata la visita di uno psichiatra della difesa per i prossimi giorni. Eppure la direzione sanitaria del carcere aveva attestato di recente che il detenuto si orientava nel tempo e nello spazio, era collaborativo e presente a se stesso.

 

“Nel caso di Cutolo si mischiano farsa e tragedia”, commenta l’avvocato Gaetano Aufiero, che lo assiste da 25 anni

Sono numerosi gli acciacchi di Cutolo. Ipertensione, prostatite, ma soprattutto i problemi alla vista e l’artrite che gli impediscono le due attività preferite: leggere e scrivere. Malgrado i ritardi con cui li riceveva, il professore era abbonato a cinque quotidiani, componeva lunghe lettere e poesie. All’apice del fulgore criminale destò scandalo, nel 1980, l’uscita di un suo libro che poi fu sequestrato: Poesie e pensieri; ne è stato pubblicato un altro nel 2019, Poesie dal carcere, ma lui non ne ha mai visto una copia perché il 41 bis vieta di ricevere volumi dall’esterno.

 

E’ nel destino di Cutolo bordeggiare il confine tra normalità e pazzia, presunte entrambe con perizie psichiatriche che hanno detto e contraddetto. E riuscì a evadere, restando latitante per quindici mesi, proprio dal manicomio criminale di Aversa il 5 febbraio del 1978, quando i suoi uomini gli aprirono una breccia nel muro di cinta con la dinamite.

 

Furono circa 1.500 le persone uccise fra il 1978 e il 1983 nella guerra che scoppiò fra don Raffaele e i clan tradizionali della camorra, concepiti su base famigliare. Lui ne spiazzò gli schemi con un’organizzazione che si rifaceva all’ottocentesca Bella società riformata a gerarchia centralizzata, strutturata su un esercito di affiliati che sarebbero lievitati a settemila. Narcotraffico, estorsioni, appalti, rifiuti, edilizia, collusioni con il potere politico fecero della Nco il nemico numero uno. I vecchi clan si federarono nella Nuova Famiglia, dando corso a una faida che assunse proporzioni epiche dopo il sisma dell 1980, quando il denaro per la ricostruzione si riversò sulla Campania e banchi di piranha si tuffarono nel fiume: 265 omicidi di camorra nel solo 1982.

 

Quegli anni sono oggi inimmaginabili al capezzale di un vecchio infermo nell’ospedale di Parma, su cui s’affollano solo fantasmi. Per ricordare il Cutolo d’allora e ridare corpo alle ombre bisogna pescare fra ritagli ingialliti. Ecco come Salvatore Maffei descrisse il super boss in un’aula giudiziaria nel 1980: “Ogni udienza del processo alla nuova camorra è un pellegrinaggio di estimatori del ‘don’: impresari di festival, ricchi industriali, umili bottegai, uomini incensurati, pregiudicati, aspiranti carcerati. Tutti, sfilando davanti al gabbione metallico, inventano espressioni radiose, salutano con enfasi, sorridendo o inchinandosi”.

 

“Perché limitare i colloqui con i congiunti a un’ora al mese, dato che sono videoregistrati e si svolgono alla presenza di agenti specializzati?”

E’ inimmaginabile oggi che quest’uomo malato e poco lucido disponesse di un personale “servizio d’ordine”: “Decine di giovani aitanti, forti, dallo sguardo duro, i quali si sono schierati lungo il passaggio obbligato dalla camera di sicurezza all’aula penale tenendosi per mano con le braccia tese in maniera da formare un corridoio umano tra la folla degli ammiratori vocianti e plaudenti”. E’ inimmaginabile pure che esponenti dello stato, politici e latitanti si ritrovassero nel carcere di Ascoli Piceno sollecitando l’intervento del padrino per la liberazione di un assessore regionale, Ciro Cirillo sequestrato dalle Brigate Rosse, prima che rivelasse segreti imbarazzanti. La mediazione riuscì ma cominciò il declino di don Raffaele: aveva superato una soglia che non si può varcare, quella di interlocutore dello stato.

 

Nel 1982, su pressione del presidente della Repubblica Sandro Pertini, fu isolato nel carcere dell’Asinara riaperto apposta per lui. Non è facile capire come abbia trascorso, da allora, un’esistenza che il poeta Antonio Machado avrebbe definito vivir desviviéndose.

 

Nel 1987, per non impazzire o perché impazzito, dialogava con le mosche: “Per superare lo sconforto, la disperazione”, confidò in una lettera, “allevai una mosca. Sì, proprio una mosca e con questa inventavo dei lunghi discorsi, con domande e risposte. S’intende, ero soltanto io a parlare, per me e per la mia fedele amica mosca”. E’ lo stesso stratagemma di Darrell Standing, il condannato a morte protagonista di Il vagabondo delle stelle di Jack London: “Il tempo, intanto, non passava mai. Una vera sofferenza. Mi misi perciò a giocare con le mosche, mosche comuni che riuscivano a entrare nella penombra della cella così come faceva la luce, e mi accorsi che avevano il senso del gioco”.

 

E’ stato pubblicato un altro libro di Cutolo nel 2019, ma lui non ne ha mai visto una copia perché il 41 bis vieta di ricevere volumi dall’esterno

E questo è Cutolo: “Quando giunsi il 19 aprile 1982 nel deserto arido dell’Asinara mi chiesi quanto avrei potuto resistere in quell’atmosfera di angosciante solitudine, completamente isolato, martellato dal lentissimo trascorrere del tempo, privato anche del sollievo della lettura, stordito dall’accecante chiarore del giorno e dai cupi lunghi silenzi della notte”.

 

Non gli giovò passare dall’Asinara al 41 bis di Belluno: gli sequestrarono anche il fornelletto su cui scaldava l’acqua per le abluzioni e la camomilla. Gli restituirono vitalità l’attesa e la nascita di Denise (un altro figlio, Roberto, fu ucciso in un agguato nel ’90). “Ma l’avrà vista una manciata di ore in tutta la vita, e in virtù delle norme al compimento del dodicesimo anno non l’ha potuta più toccare. Quando la bambina fece la Prima Comunione”, racconta l’avvocato Aufiero, “inoltrammo richiesta per una foto assieme al padre, ma l’autorizzazione arrivò che Denise era cresciuta e il vestito della cerimonia non le entrava più”. La burocrazia è severa: per anni la direzione del carcere invitò il legale a visitare Cutolo solo di domenica, affinché nel tragitto tra cella e sala colloqui non incrociasse lo sguardo dei detenuti. Cautele necessarie anche per la sorella del professore, Rosetta (considerata la “mente” amministrativa della Nco), cui durante la carcerazione era vietato scambiare il segno della pace nella messa domenicale.

 

E’ il prezzo di un’epopea cruenta che seminò troppa morte (ma Cutolo, si sa, ha continuato a dire di “aver fatto del bene”). Né altri boss efferati di quegli anni né i demoniaci protagonisti delle successive faide di Scampia hanno potuto aspirare all’insano carisma di don Raffaele, tantomeno a una canzone di De André o alla pellicola di un futuro premio Oscar come Giuseppe Tornatore: i dialoghi da Il camorrista, ricordò Roberto Saviano in Gomorra, ispiravano chiunque coltivasse velleità di padrino.

 

Che le tv locali ancora ritrasmettano il film è tra i motivi della scelta dei giudici: “Inalterata fama criminale”, scrivono le informative dei carabinieri. L’uomo Cutolo però non è la sua leggenda: ammesso che possa più rialzarsi dal letto e riacquisire lucidità, difficilmente saprebbe attraversare la strada. E da tempo ha rinunciato all’ora d’aria.

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