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La giustizia non è compromesso

Stefano Alberto

Sottoposta al potere, questa esigenza originaria dell’uomo è ridotta a surrogato. Alla (buona) politica il dovere di liberarla da legalisti e ultrà dei desideri-diritti

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Questo incontro cade nel trentennale della caduta del Muro di Berlino. Permettetemi di iniziare da un ricordo personale. Trent’anni fa mi trovavo in un’area di servizio tra Monaco di Baviera e Heidelberg dove avrei partecipato a un incontro di universitari. Pochi mesi prima, un mio amico tedesco mi aveva portato in un luogo della estrema Franconia orientale sul confine con la Ddr a vedere il paese di sua nonna. Salimmo su una torretta alta circa cinque metri e potemmo gettare uno sguardo al di là di una doppia cortina di filo spinato elettrificato, di un fossato con mine antiuomo, su un paese disabitato. Disse: “Non potrò mai visitare questo luogo”.

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Questo incontro cade nel trentennale della caduta del Muro di Berlino. Permettetemi di iniziare da un ricordo personale. Trent’anni fa mi trovavo in un’area di servizio tra Monaco di Baviera e Heidelberg dove avrei partecipato a un incontro di universitari. Pochi mesi prima, un mio amico tedesco mi aveva portato in un luogo della estrema Franconia orientale sul confine con la Ddr a vedere il paese di sua nonna. Salimmo su una torretta alta circa cinque metri e potemmo gettare uno sguardo al di là di una doppia cortina di filo spinato elettrificato, di un fossato con mine antiuomo, su un paese disabitato. Disse: “Non potrò mai visitare questo luogo”.

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La riduzione a legalità e sola giurisprudenza rende il giudice e i tribunali protagonisti di una società sempre più confusa

Se all’epoca una cosa sembrava stabile, immutabile, irrisolvibile, questa era l’ordine del post Seconda Guerra mondiale. […] Il 9 novembre di trent’anni fa il Muro è caduto. Io – come detto – non ero a Berlino quel giorno, ma ricordo la scena, appena pochi giorni dopo, in questa grande area di servizio, piena come ogni fine settimana di gente in viaggio: a un certo punto si sentì l’inconfondibile rumore del motore di una Trabant, la famosa utilitaria prodotta nella DDR. Nell’area di servizio si fece un silenzio impressionante. Dalla Trabant scesero due persone di mezza età, presumibilmente marito e moglie, che furono circondati, nonostante il proverbiale riserbo tedesco, da una folla festante. In quel momento io mi sono sentito al centro della storia, di una storia che improvvisamente è cambiata radicalmente.

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Tutto ciò per osservare che, nella confusione che viviamo – chiamatela con Papa Francesco “cambiamento d’epoca”, con papa Benedetto “crollo delle evidenze”, “società liquida” con Bauman, “nichilismo gaio” con Del Noce, – la prima grande insidia è quella di sentirsi un poco sopraffatti da fenomeni che nessuno di noi riesce più non dico a controllare, ma a percepire in tutta la loro estensione. Al riguardo, Czeslaw Milosz, premio Nobel della letteratura nel 1984, scrisse: “Si è riusciti a far credere all’uomo che se vive è per grazia dei potenti, pensi dunque a bere il caffè e a dare la caccia alle farfalle. Chi si occupa della res publica avrà la mano mozzata”.

  

Ecco la prima insidia, pensare che i nostri tentativi siano certamente nobili e generosi– ne siamo convinti – ma destinati a un’inevitabile irrilevanza storica. Il contesto in cui viviamo sembra richiamare uno scollamento irrimediabile tra le dinamiche personali e quelle che regolano i rapporti politici nello stato e tra gli stati.

   

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Václav Havel ha messo bene in luce, nel primato della coscienza, la lotta quotidiana del vivere come risposta a un altro, agli altri 

Per affrontare il tema del delicato rapporto tra politica e giustizia, vorrei innanzitutto concentrarmi su quest’ultima. Parto da una semplice constatazione che non può non destare una certa curiosità. C’è una lunga tradizione, un filo sottile che si è dipanato tra Israele, Atene e Roma che guarda alla giustizia come dimensione/esigenza originale costitutiva della persona nel rapporto con l’altro. Il cristianesimo semplicemente ha raccolto, approfondendone il significato, questa tradizione. Il Catechismo della Chiesa cattolica, per esempio, al numero 1807 riporta la definizione di giustizia: “La giustizia è la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto”. Questa definizione di giustizia è sostanzialmente quella formulata da un professore di diritto del terzo secolo d.C., nell’età dei Severi, si chiamava Ulpiano e, nota a margine, fu ucciso dai pretoriani. Ulpiano non parla di Dio, ma anche lui della ferma e costante volontà di dare all’altro ciò che è dovuto, “suum cuique tribuere”. Vale a dire che la giustizia è qualche cosa che riguarda la mia persona, la mia umanità, le mie esigenze fondamentali.

  

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Il grande cambiamento di paradigma – procedendo per accenni – lo abbiamo sostanzialmente con Thomas Hobbes che, detto in estrema sintesi, teorizzò che non esiste la giustizia, ma esistono degli interessi, quindi dei conflitti di interesse che hanno bisogno di un’istanza, il potere assoluto del sovrano, che li componga e senza la quale l’uomo diventa un lupo per l’altro uomo.

  

Jean Jacques Rousseau dirà non solo che non esiste la giustizia, ma che non esiste la persona. Esiste il cittadino, che è buono per natura ma, che può essere corrotto dalla società. In questa sua visione la politica assume quindi una funzione “redentiva”.

  

In un libretto intitolato “Che cos’è la giustizia. Lezioni americane” il padre del positivismo moderno che sostanzialmente domina lo scenario di riferimento, Hans Kelsen, scrive: “La giustizia è un ideale irrazionale, in altri termini una illusione una delle eterne illusioni dell’umanità, esistendo soltanto interessi degli esseri umani, dunque conflitti di interesse”.

 

È una affermazione molto forte alla quale tanti pensatori, anche provenienti dal positivismo, hanno contrapposto la loro esperienza umana. Cito per tutti – dall’introduzione di Juliàn Carròn, al libro “Esperienza elementare e diritto”, a cura di Marta Cartabia, Andrea Simoncini, Lorenza Violini e Paolo Carozza – l’osservazione del filosofo Pietro Rossi, che pure si dichiarava ateo e positivista: “Non esiste nessuna istanza metafisica, eppure mi ripugna considerare il nulla come il comune destino del carnefice e della vittima”. Non a caso un grande sociologo del diritto considera la domanda sul diritto e sulla giustizia una “questione persistente”; Herbert Hart osserva che nessuna disciplina si interessa così tanto del suo statuto epistemologico quanto il diritto.

 

La giustizia in quanto esigenza originale è parte della mia esperienza, o, come affermano Kelsen e i suoi precursori, è un ideale irrazionale? La risposta a questa domanda, la verifica di questa alternativa, non passa da un confronto ideologico, ma dall’esperienza di ciascuno di noi.

 

Possiamo vedere oggi due surrogati della giustizia. Il primo è la riduzione della giustizia alla sola legalità. Legalità è una parola fondamentale, ha un valore e un significato importante e irrinunciabile, eppure troppe volte nasconde, di fatto, la riduzione della giustizia a quello che il potere di turno ritiene giusto, per cui si perseguiranno certi reati e non altri, si porrà l’attenzione a un uso della procedura piuttosto che a un altro. Sinteticamente potremmo tradurre così: il problema della giustizia nella società da un problema di ordine dei rapporti sociali (Joseph Ratzinger parla di “ordinamento della libertà”) diventa un problema di potere.

 

Il secondo surrogato attuale della nozione e dell’esperienza di giustizia è la sua riduzione alla sola giurisprudenza. Non si tratta appena della funzione del ruolo dei giudici, del quale noi siamo portati a vedere il versante penalistico perché è quello, dal punto di vista della restrizione della libertà o delle misure cautelari, più contundente per il soggetto e più clamoroso per l’opinione pubblica.

Il vero problema riguarda invece, a mio parere, quella evoluzione della giustizia civile, in cui assistiamo a questo fenomeno: sempre più diritti ottengono soddisfazione dal giudice, anzi vengono creati dal giudice stesso. La vera giustizia è quella dei tribunali e il vero protagonista di una società multiculturale, di una democrazia in una fase molto confusa, non può che essere il giudice.

 

L’esempio per me più clamoroso è nella famosa sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti nel 2015 (Obergefell), che definisce come matrimonio qualunque tipo di unione su base affettiva, eliminando le differenze di genere e di unione . In un certo passaggio – nella sentenza della Corte suprema americana c’è anche una lunga lista di dissenting opinions – si arriva a dire: nelle questioni che riguardano gli hard cases, i casi difficili della vita, non bisogna lasciare la decisione alla politica, perché la politica ha troppi interessi eterogenei rispetto all’importanza vitale del caso. Sono i giudici che devono occuparsi della vita, della morte, degli affetti, della giustizia sociale, dell’ambiente…

 

C’è un libro di Mary Ann Glendon dal titolo significativo, “Il traffico dei diritti insaziabili”, che traduce bene l’idea secondo cui il problema della società contemporanea si risolve con la scoperta di sempre nuovi diritti. La formula suona bene, ma qual è il suo punto di partenza? Il punto di partenza soggettivistico riduce la dimensione di giustizia, perché essa è ad alterum, riguarda me “in relazione a”. […]

 

Sant’Agostino in piena crisi dell’impero romano usa un’espressione molto interessante. La cito in latino perché in latino risalta la forza del il verbo: “Remota iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?”, se rimuovi la giustizia, che cosa diventano gli stati se non delle grandi bande di ladroni?

 

C’è una resistenza di quello che è propriamente umano che affiora, nelle vicende quotidiane come nelle grandi questioni della politica

Questa frase viene citata da Papa Ratzinger nell’epocale discorso al Bundestag di Berlino. E’ vero, egli sostiene, che nella maggior parte dei casi basta il principio maggioritario, bastano le procedure democratiche, ma ci sono questioni in cui le maggioranze non bastano. E se queste le risolviamo a maggioranza arriviamo a ingiustizie sempre più grandi. Certo, che cosa sia giusto oggi non è affatto chiaro.

 

La questione è molto affascinante. Io, scusandomi per lo schematismo, la sintetizzerei così: siamo nel pieno svolgimento della dinamica descritta, dai desideri ai diritti. Voglio farlo, posso farlo, devo poterlo fare. Qui i protagonisti sono il giudice e il cittadino, sembra il massimo della democrazia, ma questa dinamica tiene conto delle tre dimensioni classiche della giustizia?

 

Le ricordo. La giustizia commutativa: cosa devo io all’altro? La giustizia distributiva: cosa deve la società a me? La giustizia legale: cosa devo io alla società?

 

Ne troviamo la sintesi nell’articolo 2 della nostra Costituzione, che usa tre verbi: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

 

Dai desideri ai diritti. Ma, forse, si potrebbe provare, in un certo senso, a ribaltare il percorso: dal diritto, inteso come “ordinamento della libertà” (Ratzinger) al desiderio, cioè alla riscoperta della dimensione di apertura relazionale insita in ogni desiderio, oltre ogni riduzione narcisistica del medesimo.

 

Nel suo discorso all’Università Cattolica per il conferimento di una laurea honoris causa, Mario Draghi, ex presidente della Bce, ha sottolineato, per coloro che sono chiamati a indirizzare decisioni politiche, innanzitutto il valore della conoscenza, oltre che l’umiltà e il coraggio. Il tentativo che propongo è innanzitutto quello di ridare dignità conoscitiva a ciò che viene normalmente trattato soltanto come un problema etico o un problema di volontà, di potestà, di potere.

 

Papa Benedetto XVI, nel mai pronunciato discorso alla Sapienza di Roma, citando Jürgen Habermas, ha detto che nel determinare le grandi scelte della politica non bastano le maggioranze, non bastano le procedure, occorre riappropriarsi di “un processo argomentativo sensibile alla verità”, dove verità è scritta minuscolo, non stiamo parlando innanzitutto di Dio, della verità assoluta, ma di come stanno veramente le cose. Al Bundestag Papa Ratzinger ha insistito sulla riscoperta della ragione e della natura umana in correlazione tra loro quali vere fonti di diritto. Occorre dunque superare le ristrettezze di una ragione positivista, uscire dal bunker delle costruzioni ideologiche per potere allargare la ragione a tutte le sue potenzialità.

 

Questa sensibilità alla verità naturalmente non paga in termini di consenso, di visibilità e di potere, ma in sistemi sempre più complessi, sempre più articolati, sempre più globalizzati, la conoscenza, come dice Draghi, è imprescindibile. E’ vero che le decisioni politiche sono sempre frutto di compromessi, ma su cosa? Questa è la sfida: la esigenza di giustizia, proprio in quanto esigenza originale, non è mai un compromesso. Se io faccio il compromesso sulle esigenze strutturali che son la stoffa del mio umano, l’espressione della irriducibile originalità del mio io, della “giustizia che non passa” (Ratzinger), non faccio buona politica. L’evoluzione dell’ordinamento giuridico si basa non sul compromesso dell’umano, ma sul compromesso delle diverse visioni per arrivare a soluzioni pratiche, sapendo che certe esigenze restano, anche se non pienamente espresse. Un esempio? L’articolo tre della Costituzione: l’uguaglianza. Io devo qualcosa a te perché ci sei, perché ci sono, perché io e te abbiamo gli stessi diritti inalienabili. Eppure questa uguaglianza nasce da una sproporzione: io e te non siamo gli autori della nostra vita, dipendiamo. L’uguaglianza nasce da una comune dipendenza da altro, e riconoscere questo è giustizia. Che può diventare buona o accettabile politica. Se tu togli la dipendenza da altro, l’uguaglianza diventa semplicemente la non discriminazione, la forma più subdola di indifferenza, cioè di violenza.

 

Le radici della democrazia sono nel fatto che qualcosa mi è dovuto da te e che io devo qualcosa a te, io e te siamo uguali non perché l’abbiamo deciso noi, o per convenzione formale, ma perché c’è in noi un’origine ancora più profonda. Questa è la strada per affrontare l’apparente aporia già individuata nel 1961 da Ernst-Wolfgang Böckenförde, giurista e poi presidente della Corte costituzionale tedesca: “Lo stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire”.

 

La sensibilità alla verità implica naturalmente la libertà, la grande protagonista di quest’epoca, che la esalta a parole, ma spesso ne riduce la portata. Anche quando la libertà chiedesse di affermarsi a tutti i costi, come desiderio che deve diventare diritto, essa non va comunque mai demonizzata. Luigi Giussani nel suo ormai famoso discorso di Assago, afferma che compito della politica è dare spazio al desiderio dell’uomo. Ma non al desiderio ridotto dell’uomo, come Pier Paolo Pasolini aveva benissimo compreso, non al desiderio pre-formato dal potere, bensì al desiderio profondo dell’uomo di essere sé stesso, di essere felice, e questo implica sempre l’apertura ad altro da sé, consapevolmente o inconsapevolmente. La libertà dunque non è tale se non è responsabilità.

 

Charles Taylor insiste su questo punto: non dobbiamo demonizzare la secolarizzazione, pur con tutte le conseguenze devastanti che a volte crea nel tessuto sociale, ma riconoscere piuttosto in tutto quello che sembra sparito, in tutto quello che sembra scomparso, un fiume sotterraneo che continua a scorrere non visto. C’è una resistenza di quello che è propriamente umano che affiora, nelle vicende quotidiane come nelle grandi questioni della politica nazionale e internazionale. Spiragli di apertura all’altro, spiragli di religiosità, spiragli di responsabilità. È qui che ritorna la questione posta da Giussani in modo semplice e geniale: la irriducibilità dell’io. L’uomo resta desiderio di felicità. E anche se questa felicità si tenta di tradurla in termini a volte molto discutibili, questa tensione a essere se stesso, a crescere nella propria umanità, alla responsabilità verso il proprio destino restano.

 

È molto diverso un uomo che accetta di fare politica tenendo viva questa esigenza di compimento di sé attraverso l’apertura all’altro (all’Altro). Che cosa devo all’altro? Di che cosa sono responsabile?

 

Potremmo rispondere bruscamente, ad esempio come fa Arthur Schopenauer: non gli devi niente. Potremmo rispondere ancora più crudamente con Johann Wolfgang Goethe: l’uomo da quando nasce si allena a essere ingiusto.

  

“Se rimuovi la giustizia, che cosa diventano gli stati se non delle grandi bande di ladroni?”, si chiedeva Sant’Agostino

All’altro, io che vivo insieme a lui, che cosa devo? Il dovere non è da intendere kantianamente, come volontarismo moralistico. il dovere nasce come risposta a un altro. Václav Havel ha messo bene in luce, nel primato della coscienza, la lotta quotidiana del vivere come risposta a un altro. C’è una linea che parte da Socrate che dice: potrei scappare, ma se scappo, trasgredendo le leggi della città che ho contribuito a costruire, che cosa diranno i giovani? Ad Atene, a Praga, nel piccolo paese in cui uno è eletto consigliere comunale… ci sono degli uomini, chiamati a rispondere ad altro da sé, credenti e non credenti insieme. È l’avventura di ogni giorno. Però un uomo da solo non resiste, non come coerenza – uno può sbagliare mille volte –, non resiste all’altezza dei suoi desideri. Questa è l’insidia del potere: lentamente abbassa il desiderio. È una cosa terribile: fai quello che vuoi, ma quello che vuoi è già stato ridotto da me, non te ne sei neanche accorto. Per questo è importante un luogo, una compagnia, un’amicizia, cioè una passione reale per il destino dell’uomo, nella sua continua possibilità di grandezza e di meschinità. Così anche la politica può aprire spazi di libertà, proprio perché la libertà si muove al massimo quando è davanti a altro da sé. […]

 

Quanto sia lungo questo cammino, non lo sappiamo. Sappiamo però una cosa: la nostra vita in un momento, come a Berlino, come a Praga, può intercettare la storia, quelle svolte che si preparano in luoghi che non appaiono e che non hanno visibilità, ma che a un certo punto, come un germoglio dopo il gelo, fioriscono. […]

 

E’ l’idea espressa dal primo pensatore cattolico moderno canonizzato, san John Henry Newman, il quale così descrive la devastazione seguita al crollo dell’impero romano, quando c’era semplicemente non da conservare qualcosa, illusione molto attuale, ma da ricominciare tutto.

 

“Benedetto trovò il mondo sociale e materiale in rovina, e la sua missione fu di rimetterlo in sesto, non con metodi scientifici, ma con mezzi naturali, non accanendovisi con la pretesa di farlo entro un tempo determinato o facendo uso d’un rimedio straordinario o per mezzo di grandi gesta; ma in modo così calmo, paziente, graduale, che ben sovente si ignorò questo lavoro, fino al momento in cui lo si trovò finito. Si trattò di una restaurazione più che di un’opera caritatevole, di una correzione o di una conversione. Il nuovo edificio, ch’esso aiutò a far nascere, fu più una crescita che una costruzione. Uomini silenziosi […] sterrando e costruendo, altri uomini silenziosi, che non si vedevano, stavano seduti, nel freddo del chiostro, affaticando i loro occhi e concentrando la loro mente per copiare e ricopiare penosamente i manoscritti ch’essi avevano salvato. Nessuno di loro protestava, nessuno si lamentava, nessuno attirava l’attenzione su ciò che si faceva; ma ecco poco per volta i boschi paludosi divenivano eremitaggio, casa religiosa, masseria, abbazia, villaggio, seminario, scuola, ospedale, università e infine città”.

 

L’autore, nato a Biella nel 1959, si è laureato in Giurisprudenza a Torino, ha compiuto studi in Filosofia e Teologia a Roma e alla Katholische Universität di Eichstaett (Germania), dove ha conseguito il Dottorato in Teologia ed è stato assistente di Teologia Dogmatica. Dal 1992 è docente Teologia presso lUniversità Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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