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Algoritmi & giustizialismo

Giovanni Canzio e Vittorio Manes

La mortificazione delle garanzie generata dal processo telematico. Perché la giustizia penale è a un bivio fra tecnologia e tecnocrazia. E a rischio c’è lo stato di diritto. Un dialogo

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Pubblichiamo un dialogo, realizzato per il Foglio, tra Vittorio Manes, ordinario di Diritto penale nell’Università di Bologna, e Giovanni Canzio, Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione.

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Pubblichiamo un dialogo, realizzato per il Foglio, tra Vittorio Manes, ordinario di Diritto penale nell’Università di Bologna, e Giovanni Canzio, Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione.

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Caro Gianni,

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l’emergenza sanitaria in atto, con un carico di sfide inattese e vertiginose, ha imposto l’adozione di misure straordinarie, molte delle quali – lo sperimentiamo tutti – in forte frizione con le libertà e i diritti fondamentali.

 

Così, misure radicali hanno investito anche l’amministrazione della giustizia, con sospensione e rinvio delle attività “non urgenti”, e modalità di svolgimento diverse da quelle consuete: e tra tali misure si è fatta strada anche la possibilità di svolgere il processo penale per via telematica.

 

Le forti perplessità e la severa critica degli avvocati – e dell’Unione delle Camere penali – hanno condotto, solo negli ultimi giorni, ad escludere dalla “remotizzazione” le fasi salienti dell’assunzione delle prove e della discussione finale, salvo accordo tra le parti.

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Ma una riflessione sul punto sembra comunque imposta, se è vero che si è inattuali oggi per essere attuali domani; anche perché qualcuno ritiene questo scenario – al di là dell’emergenza – l’inevitabile evoluzione di un sistema di giustizia aperto al progresso tecnologico.

 

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Il processo telematico può aggredire in modo radicale princìpi irrinunciabili del processo penale quali oralità e immediatezza

Ovviamente bisogna fare le dovute distinzioni: il “processo telematico” è un grande contenitore, e può comprendere anche innovazioni non solo indolori per le garanzie fondamentali, ma indubbiamente positive, quali sarebbero, ad esempio, modalità informatiche di trasmissione di atti e memorie, o di accesso da remoto al fascicolo processuale – come i penalisti sognano da tempo – o la videoregistrazione di una cross-examination.

 

Se invece si evoca la possibilità di svolgere le udienze da remoto, le perplessità mi sembrano evidenti, pur con i necessari distinguo: anche in questo caso, l’impatto può essere certamente differente se si parla di una udienza nella sede del giudizio di Cassazione (dove del resto già si differenzia tra udienze partecipate o meno), o viceversa nei gradi di merito, specie se si arrivi a ricomprendere – appunto – fasi nevralgiche come l’istruttoria dibattimentale.

 

A questo riguardo, da molte, autorevoli voci, si è evidenziato che il processo penale telematico mortificherebbe in modo radicale principi irrinunciabili del processo penale quali oralità ed immediatezza: principi che contrassegnano il contraddittorio sulla prova e il diritto di difendersi provando, su cui è – o dovrebbe essere – edificato il nostro modello accusatorio. Le ragioni, del resto, mi sembrano evidenti: perché, solo per fare un esempio, è nell’incarnato dell’istruttoria – nello sguardo, talvolta in una smorfia o nell’inflessione della voce – che può cogliersi la veridicità e autenticità di una testimonianza, non nella sagoma digitale liofilizzata dai pixel o nella voce metallizzata dalla connessione telematica.

 

Da più parti si è anche rimarcato che ne uscirebbe mortificato il ruolo dell’avvocato, ed è senza dubbio così, anche solo per la banale ragione che non si ascolta con la stessa attenzione la voce di chi parla guardando negli occhi o la voce di un ologramma che tremola sul desktop.

 

La mortificazione delle garanzie e della difesa tecnica, ovviamente, non volteggia solo nel cielo dei concetti giuridici, ma ha conseguenze molto concrete: del resto, uno studio dell’Università del Surrey sulla recente esperienza inglese, dedicato alla Video Enabled Justice Evaluation, evidenzia che con le udienze telematiche è aumentato sensibilmente il rischio di una condanna più severa, e una pena detentiva diventa molto più probabile che i lavori socialmente utili.

 

Più in generale, il rischio è che – sull’altare dell’emergenza sanitaria, oggi, e magari dell’efficientismo processuale, domani – anche e soprattutto l’imputato sia spersonalizzato e ridotto ad una dimensione “cosale”, e che subisca, assieme alla sua vicenda processuale, una sorta di “reificazione telematica”, lesiva della stessa dignità della persona. Ma a me pare anche che, a monte, ne uscirebbe trasfigurato e desimbolizzato il processo in quanto tale, perché la tecnica – come insegnano i filosofi - modifica il contesto di impiego e persino chi ne fa uso, e il mezzo tecnico – indipendentemente dallo “scopo” - ci istituisce come spettatori e non come partecipi di un’esperienza o attori di un evento.

 

Quello telematico sarebbe, anzitutto, un processo “o-sceno”, in senso etimologico: “Fuori dalla scena”, e fuori dal codice simbolico

Quello telematico sarebbe, anzitutto, un processo “o-sceno”, in senso etimologico: “fuori dalla scena”, e fuori dalla simbologia che la caratterizza, ancora affidata a formule sacrali (come il giuramento del testimone) e a simboli che lo contrassegnano e al tempo stesso lo proteggono, come la toga, che non è un accessorio solo esornativo perché emblematizza la comune appartenenza e partecipazione – pur nella diversità dei ruoli – al “rituale giudiziario”, ossia a quella “liturgia laica” che si propone il compito terribile di accertare la verità e distribuire colpe e pene.

 

Questo spazio formale, che per Omero era il “sacro cerchio”, dove si dispiega una vicenda individuale e al contempo collettiva, è già stato saccheggiato ed espropriato – come si sa – dal “processo mediatico”, perché la mediatizzazione della giustizia penale ne altera radicalmente forma e sostanza, travolgendo tutta una serie di garanzie poste a presidio anche del giudice (e della sua “virgin mind”), che spesso, del resto, vede vituperata la sua decisione nel “baccanale delle opinioni” più disinformate e triviali. Da diversa prospettiva, l’efficientismo e gli obiettivi di produttività imposti alla giurisdizione hanno già alimentato, nostro malgrado, una dimensione funzionalistica del processo, e una tendenza a trasformare vicende individuali in fascicoli da smaltire.

 

Una soluzione: implementare l’efficacia della giurisdizione attraverso un’opera di ri-costruzione dei momenti topici dell’accusa

Ora, caro Gianni, non credi che la “remotizzazione” delle attività processuali, attuata per il medium dei software, approfondirebbe ulteriormente questa de-simbolizzazione e questa de-realizzazione, ed altererebbe in modo definitivo il processo, consegnandolo alla mediazione informatica e così frantumando un dialogo in tanti monologhi, e che trasformerebbe ancor più l’“agire” che tiene sempre in vista lo scopo e i valori in gioco, in un semplice “fare” spersonalizzato, che si limita alla buona esecuzione delle procedure?

 

Come tante volte hai sottolineato, il processo è teathrum veritatis, un itinerario di razionalità dove si celebra una ri-costruzione della realtà attraverso l’interazione simultanea e circolare tra le parti, costruita su un metodo dialettico che è anzitutto con-divisione. Perciò ti chiedo: una volta catalizzato per via telematica – dove è più facile sentire senza ascoltare e guardare senza vedere – non credi che il processo verrebbe svilito a monologo collettivo, desimbolizzato, spersonalizzato, e trasformato in una asettica procedura, quasi un incombente da sbrigare secondo un iter impersonale, anche “a domicilio”?


  

Caro Vittorio,

molte delle cose che dici rispondono alla ragione e al buon senso e sono perciò condivisibili. Lo scenario di straordinaria emergenza sanitaria conseguente al diffondersi della pandemia Covid-19 determina l’insorgere di gravi rischi, ma anche – a mio avviso – di inedite potenzialità di ricostruzione e di nuovi equilibri per l’organizzazione di quei settori pubblici più esposti a un forte stress a causa della rigidità degli apparati e delle procedure. Fra questi, certamente, il sistema dell’amministrazione della giustizia e in particolare di quella penale, nella quale – va rimarcato in premessa – il contraddittorio e la motivazione costituiscono presidî costituzionalmente garantiti di legalità razionale e, in ultima istanza, fonti di legittimazione democratica dei protagonisti del processo.

 

Il fenomeno epidemico si è collocato all’interno di un contesto storico-ordinamentale della giurisdizione penale attraversato da una profonda crisi di effettività e autorevolezza, le cui cause sono ben note: la smisurata quantità di notizie di reato, sproporzionata rispetto alla loro capacità di trattazione; l’ipertrofia dell’inchiesta, che, in assenza di pregnanti controlli del giudice, è divenuta il baricentro mediatico del rito e dalla quale sorge il prevalere delle ansie securitarie e il pregiudizio di colpevolezza; la ridotta utilizzabilità dei riti semplificati di tipo premiale che avrebbero dovuto dare respiro al processo accusatorio; l’irrazionale proliferazione dei rimedi impugnatori in difetto di “filtri” efficaci; le cadenze temporali asfittiche e non regolamentate della procedura.

 

Come restaurare la cultura della giurisdizione e le linee fisiologiche del “giusto processo”, i cui valori sono incisivamente scolpiti nell’art. 111 della Costituzione ma che nelle prassi applicative appaiono sostanzialmente disattesi? A me sembra che l’unica risposta idonea a contrastare i pregiudizi del rito mediatico e il c.d. populismo giudiziario consista nell’implementare l’efficacia della giurisdizione penale, attraverso un’opera di ri-costruzione dei momenti topici della verifica dell’ipotesi di accusa e dell’accertamento della verità, nel rispetto delle garanzie individuali, lungo itinerari più semplici, trasparenti, celeri ed efficienti. Coniugare semplificazione, efficienza, qualità e garanzie: è questa la difficile sfida alla quale sono chiamati da tempo i protagonisti della giurisdizione e che l’emergenza sanitaria ha reso ancora più drammaticamente visibile.

 

Quanto alla temuta deriva della tradizionale funzione cognitiva e aletica della giustizia penale a causa dell’irrompere del “processo telematico”, non mi sembra – e credo che tu sia d’accordo – di scorgere all’orizzonte tale pericolo. Non si può non prendere atto che, partendo dalle prime esperienze dell’informatica giuridica e giudiziaria, è oggi aperta la nuova frontiera della giustizia “digitale”, “robotica” o “predittiva”, di cui non è ancora definito il potenziale d’innovazione sia per gli aspetti ordinamentali che per quelli procedurali. E però occorre essere consapevoli che l’esercizio della giurisdizione penale, in quanto luogo della ragione, esige spazi e tempi adeguati e non può essere frutto di accelerazioni o improvvisazioni dettate da frammentarie emergenze, senza una chiara visione dei valori in gioco che ne guidi le priorità e la rotta. Il giudice e le parti non possono certo disconoscere la sicura utilità delle innovazioni frutto dell’inarrestabile progresso tecnologico, né possono disconnettersi dall’ambiente digitale e dalle reti in cui operano, ma neppure possono essere condizionati da una fredda tecnologia che li sospinga a decidere comunque e in fretta, negando, in nome di un cieco efficientismo e dell’ansia di produttività, il respiro profondo del dibattito e della riflessione critica. Insomma, la tecnologia informatica o telematica, pure necessaria ma “di supporto”, non deve comprimere le sequenze cruciali della giurisdizione. In fondo – l’ho già detto in un’altra occasione – dal pensiero “corto” alla sentenza “tweet” o al verdetto immotivato il passo è breve. Ma che ne resterebbe dei valori costituzionali del giusto processo, della cultura della giurisdizione e della legittimazione democratica dei giudici?

 

Entrando più direttamente nel merito delle tue riflessioni sulle criticità del c.d. “processo da remoto” o “a distanza”, la disciplina normativa adottata per quella che viene definita la “fase 1” consente – solo nei processi urgenti – la celebrazione dell’istruttoria dibattimentale o incidentale senza la necessaria compresenza di tutti gli attori del processo nella medesima aula, con l’ausilio di tecnologie gestite da personale esperto. Ebbene, a prescindere dall’eventuale inadeguatezza degli strumenti tecnici con conseguente rallentamento nella gestione “da remoto” dei carichi di lavoro programmati, a me sembra che tale disciplina sia obiettivamente necessaria e coerente con l’attuale stato di emergenza sanitaria. L’alternativa sarebbe un inammissibile blocco tout court della giustizia penale! Essa, tuttavia, proprio per il suo carattere derogatorio ed eccezionale rispetto al regime ordinario, deve avere un’efficacia (molto) limitata nel tempo, per cui, cessata l’emergenza, il modello e i principi del giudizio di merito vanno tutelati con la “materializzazione” dell’istruttoria e con la riespansione degli spazi di difesa.

 

Sarebbe preferibile, quindi, preoccuparsi di progettare fin d’ora l’immediato futuro della giustizia penale con spirito pragmatico, prescrivendo da subito la trasmissione per via telematica degli atti difensivi e procedendo speditamente sulla strada dell’informatizzazione fino a pervenire alla digitalizzazione del fascicolo processuale. Va avviata inoltre una coraggiosa riflessione sulla introduzione a regime della modalità di trattazione “da remoto”, in funzione sostitutiva del contraddittorio orale, con riguardo a talune fasi processuali diverse dal dibattimento. In numerosi casi il procedimento camerale meriterebbe la sola trattazione cartolare, senza la partecipazione della pubblica accusa e delle parti private, cui seguirebbe l’immediata decisione. L’elenco sarebbe davvero troppo lungo ma appare sufficiente considerare che esistono fasi (l’archiviazione, l’udienza preliminare, l’appello, la cassazione) e tipologie di procedimenti (le impugnazioni cautelari; il patteggiamento; il giudizio abbreviato; l’esecuzione; la sorveglianza; la prevenzione) che potrebbero tollerare un’adeguata e garantita trattazione “cartolare”, sulla base di una disciplina normativa che, solo per i casi complessi, faccia rinvio ad appositi protocolli fra avvocatura e magistratura o alla adesione delle parti. La previsione di seri “filtri” alle impugnazioni sarebbe inoltre destinata a refluire positivamente sulla efficacia complessiva del sistema.

 

Infine, vorrei essere chiaro su una questione che ritengo decisiva per il riconoscimento del ruolo e della legittimazione democratica dei giudici nella società moderna (o postmoderna). I giudici, anche nelle condizioni di emergenza sanitaria e ancor più a regime, una volta che questa sia cessata, hanno il dovere etico e giuridico di essere presenti per la deliberazione in camera di consiglio nelle aule dei palazzi di giustizia, nei luoghi cioè fisicamente identificabili come presidio della legalità e della tutela della dignità, dei diritti e delle libertà della persona. Sarebbe troppo facile altrimenti denunziare, insieme con l’eccentrico privilegio concesso ai magistrati, la paventata transizione dall’età della tecnologia a quella della tecnocrazia. Ovviamente, come già ora sta avvenendo in altri paesi europei ed extraeuropei pure duramente colpiti dalla pandemia, nell’opera difficile e graduale di ripresa dell’inderogabile munus di esercizio della giurisdizione, dev’essere assicurata sia dall’amministrazione centrale che con provvedimenti organizzativi territoriali la rigorosa osservanza di tutte le necessarie condizioni di sicurezza igienico-sanitarie, insieme con la rimodulazione dei ruoli secondo i protocolli di tutela sanitaria.


 

Caro Gianni,

condivido, a mia volta, le tue osservazioni, e l’equilibrio che esse esprimono al cospetto non solo dell’attuale contesto emergenziale, ma anche di quella che tu chiami la nuova frontiera della giustizia “digitale”, “robotica” o “predittiva”.

 

Qui il “nuovo” incalza da tempo, e promette scenari di prodigioso efficientismo e massima implementazione del crime control: ma ancora una volta ci riporta al bivio tra tecnologia e tecnocrazia.

 

Si parla ormai di intelligenza artificiale e algoritmi predittivi in sede di prevenzione della criminalità, di individuazione degli autori dei reati, di accertamento della pericolosità criminale e del rischio di recidiva, di commisurazione della pena “giusta”, come pure di “calcolabilità della decisione” del giudice. Ovviamente, anche in questo ambito, sono necessarie differenziazioni: ma mi sentirei di non cedere troppo frettolosamente alle lusinghe della tecnologia, che al cospetto di taluni contesti dove il “fattore umano” è centrale – come nella giustizia penale – rischiano derive pericolose, specie in un orizzonte non più solo distopico o futuribile come quello descritto in cult movies tipo “Minority report” o in romanzi di fantascienza giuridica.

 

Gli algoritmi vanno maneggiati con cautela: perché si prestano a distorsioni (bias) e implicano notevoli frizioni con i diritti e le garanzie fondamentali, che rischiano di essere sacrificati sull’altare di una utopica “giustizia esatta”.

 

Ad esempio, studi dottrinali americani, prima e dopo il celebre caso Loomis (dove i giudici avevano tenuto conto dei risultati elaborati da un particolare programma attuariale di risk assessment per valutare il pericolo di recidiva), hanno evidenziato la vocazione strutturale degli algoritmi alla diseguaglianza; ma dubbi altrettanto consistenti potrebbero essere ravvisati su altri fronti, perché gli algoritmi rischiano di mettere in primo piano non il “fatto” commesso ma la “tipologia di autore” fornita dalle standardizzazioni statistiche e dunque, se impiegati per la prova della colpevolezza, stridono con principi come la personalità della responsabilità penale e la presunzione di innocenza; ancora, la loro scarsa o nulla trasparenza, e la non controllabilità dell’algoritmo, pregiudica il diritto di difesa, che implica la possibilità di verificare in contraddittorio l’attendibilità del sapere tecnico e l’affidabilità del metodo scientifico utilizzato, etc.

 

La mia impressione, in definitiva, è che siano e debbano restare “utensili” che possono in limitati casi coadiuvare la valutazione giudiziale, ma mai sostituirla: perché nessuna stringa artificiale potrà surrogare le qualità umane che servono a “giudicare”, quali l’immaginazione e la capacità di dare vita a processi creativi, di suscitare e percepire emozioni, l’apertura alla curiosità e al dubbio, ovvero la propensione ad una ricerca di senso caratterizzata da finitezza e fallibilità.


 

Caro Vittorio,

Con le udienze telematiche è aumentato il rischio di una condanna più severa e una pena detentiva più probabile

anche qui mi trovi sostanzialmente d’accordo. Avvertiva B.N. Cardozo, giudice della Corte Suprema statunitense negli anni ‘30, che “ancora non è stata scritta la tavola dei logaritmi per la formula di giustizia”. E’ stato rilevato – come accennavi – il recente emergere del fenomeno dell’utilizzo, da parte di alcune corti statunitensi, di tecniche informatiche per misurare il rischio di recidivanza del condannato, ai fini della determinazione dell’entità della pena o di una misura alternativa alla detenzione. Il giudizio sulla propensione dell’imputato a ripetere il delitto non trova la soluzione in un criterio metodologico di accertamento del fatto e delle circostanze, ma viene affidato a un algoritmo di calcolo probabilistico del rischio, elaborato da un software. Sono evidenti i risultati pratici del modello matematico-statistico di tipo predittivo, in termini di tempo, costi e prevedibilità della decisione giudiziaria. Sono tuttavia parimenti forti le cautele avanzate dalle corti e le resistenze dei giuristi, dirette a frenare l’impetuosa avanzata delle nuove tecniche, quanto al rispetto delle garanzie del “giusto processo” nella raccolta delle informazioni utili – i dati di base – per la valutazione del rischio nel mondo reale e all’eventuale pregiudizio discriminatorio nei confronti dell’imputato/condannato.

 

A fronte di uno sconvolgente mutamento di paradigma delle regole della giurisdizione penale, mi sembra giusta l’impresa – etica e culturale – di preservare l’equità, l’etica e le garanzie del modello costituzionale proprio del razionalismo critico. E però, al bivio tra tecnologia e tecnocrazia, ancora una volta la sfida della modernità si sposta, a ben vedere, sul terreno della concreta efficacia del modello processuale.

 

La moderna ricerca socio-giuridica, anche alla luce delle prassi applicative già in corso in alcuni Paesi (prevalentemente nelle cause civili), auspica infatti che l’approccio della giurisdizione al fenomeno dell’Intelligenza Artificiale si basi su una metodologia estremamente pragmatica, provando a rispondere a una serie di domande. Ad esempio: i cittadini preferirebbero che la decisione di un affare (penale) fosse affidata ad un algoritmo piuttosto che ad esseri umani, laddove ciò garantisse una più sicura uniformità di trattamento, minori costi e rapidità del giudizio? Quale sarebbe il livello di efficacia e qualità della giurisdizione (penale) se essa venisse esercitata nell’ambito di una procedura articolata in una dinamica interazione fra i saperi e le operazioni logiche tradizionalmente affidate al giudice e alle parti, da un lato, e le evidenze della prova informatica o di quella digitale o del calcolo di un algoritmo, dall’altro?

 

A me sembra che sia cresciuta nella società la legittima pretesa che il giudice, nell’esercizio dell’arte del giudicare e nella pratica giudiziaria, sia un buon ragionatore e un decisore di qualità. Sicché la professionalità e l’implementazione del grado di expertise accumulata dal giudice nell’utilizzo delle tecniche inferenziali del ragionamento e nella verifica degli schemi statistico-probabilistici, acquisiti con l’ausilio della tecnologia digitale, di software informatici e algoritmi predittivi o con l’apporto della robotica e della logica dell’IA, possono contribuire a restituire al funzionamento della giustizia penale una più adeguata immagine di efficacia e qualità.

  

La buona salute di uno Stato di diritto è direttamente proporzionata alla razionalità, all’efficacia, alla responsabilità e alla prevedibilità dell’opera dei giudici.

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