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Prescrizione vuol dire paralisi giudiziaria

Redazione

Il Primo presidente della Cassazione, Mammone, duro contro la riforma

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Con la riforma della prescrizione, entrata in vigore il 1° gennaio, la giustizia italiana rischia la paralisi. A denunciarlo stavolta è stato direttamente il Primo presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, alla presenza, tra gli altri, del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Le parole di giubilo espresse dal Guardasigilli (“La riforma della prescrizione è una conquista di civiltà”) sono state bruscamente smentite da Mammone, che ha prospettato “un incremento del carico di lavoro della Corte di Cassazione di circa 20 mila-25 mila processi per anno” a seguito dell’entrata in vigore della riforma che abolisce la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. “Ne deriverebbe – ha aggiunto – un significativo incremento del carico penale, vicino al 50 per cento, che difficilmente potrebbe essere tempestivamente trattato nonostante l’efficienza delle sezioni penali della Corte di Cassazione”. Mammone ha dunque auspicato che “intervengano misure legislative in grado di accelerare il processo, in quanto ferma è la convinzione che sia la conformazione stessa del giudizio penale a dilatare oltremodo i tempi processuali”, misure che non dovrebbero riguardare solo la fase successiva alla sentenza di primo grado, ma anche quella anteriore, in particolare “le fasi dell’indagine e dell’udienza preliminare, in cui si verificano le maggiori criticità che determinano la dispersione dei tempi e la maturazione della prescrizione”. Duro anche il giudizio del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che ha sottolineato il rischio di un “governo della paura”: “Affidare esclusivamente al diritto penale l’orientamento valoriale di un aggregato sociale, oltre a snaturare la funzione propria del diritto penale” secondo Salvi rischia di “spostare le politiche ai soli risvolti punitivi”. Una tentazione che ha riflessi anche sul pubblico ministero: “Dal desiderio di assecondare la rassicurazione sociale, all’idea di proporsi come inquirente senza macchia e senza paura, che esporta il conflitto sociale e combatte il nemico, il passo non è poi troppo lungo”.

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Con la riforma della prescrizione, entrata in vigore il 1° gennaio, la giustizia italiana rischia la paralisi. A denunciarlo stavolta è stato direttamente il Primo presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, alla presenza, tra gli altri, del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Le parole di giubilo espresse dal Guardasigilli (“La riforma della prescrizione è una conquista di civiltà”) sono state bruscamente smentite da Mammone, che ha prospettato “un incremento del carico di lavoro della Corte di Cassazione di circa 20 mila-25 mila processi per anno” a seguito dell’entrata in vigore della riforma che abolisce la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. “Ne deriverebbe – ha aggiunto – un significativo incremento del carico penale, vicino al 50 per cento, che difficilmente potrebbe essere tempestivamente trattato nonostante l’efficienza delle sezioni penali della Corte di Cassazione”. Mammone ha dunque auspicato che “intervengano misure legislative in grado di accelerare il processo, in quanto ferma è la convinzione che sia la conformazione stessa del giudizio penale a dilatare oltremodo i tempi processuali”, misure che non dovrebbero riguardare solo la fase successiva alla sentenza di primo grado, ma anche quella anteriore, in particolare “le fasi dell’indagine e dell’udienza preliminare, in cui si verificano le maggiori criticità che determinano la dispersione dei tempi e la maturazione della prescrizione”. Duro anche il giudizio del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che ha sottolineato il rischio di un “governo della paura”: “Affidare esclusivamente al diritto penale l’orientamento valoriale di un aggregato sociale, oltre a snaturare la funzione propria del diritto penale” secondo Salvi rischia di “spostare le politiche ai soli risvolti punitivi”. Una tentazione che ha riflessi anche sul pubblico ministero: “Dal desiderio di assecondare la rassicurazione sociale, all’idea di proporsi come inquirente senza macchia e senza paura, che esporta il conflitto sociale e combatte il nemico, il passo non è poi troppo lungo”.

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