Liberare le università
Contro la via giudiziaria alla conoscenza. Il sistema universitario diventerebbe più sano se gli atenei fossero in competizione e abolissero i concorsi. Come si fa? Un girotondo
A Catania, ancor prima della pletora di imputati, è finita alla sbarra l’intera università italiana. Con i suoi riti, le sue consuetudini, le sue regole non scritte. “C’è un sistema di nefandezza – commenta, con scarso fair play, il capo della procura etnea Carmelo Zuccaro – È un mondo desolante quando l’espressione della cultura accademica che dovrebbe essere assolutamente non soggetta al potere si sottomette al potere. Bisogna fare i conti con quello che è emerso e voltare pagina”.
A Catania è finita alla sbarra l’università italiana ma qualcosa non torna nella semplificazione inquisitoria e tra i follower dei pm
Eppure qualcosa non torna nella semplificazione inquisitoria di una questione che semplice non c’è; resta infatti da comprendere se, al netto delle eventuali condotte criminose, da accertare, spetti alla magistratura indicare la “via giudiziaria” alla conoscenza: il malcostume non è per forza reato, certe forzature non configurano di per sé delitti, la segnalazione dell’allievo di cui si conosce background e preparazione è un mezzo efficiente per minimizzare i costi di transazione e massimizzare la qualità della selezione. Da che mondo è mondo, l’accademia avanza per cooptazione, non con l’esattezza della geometria algebrica: in un ambiente realmente competitivo esiste un intrinseco incentivo a premiare il migliore. È questo il caso italiano? I dubbi sono più d’uno, il Belpaese del resto è quello del valore legale del titolo di studio, dove il “pezzo di carta” conseguito a Catania vale esattamente come a Milano, e così un metodo informativo efficiente rischia di trasformarsi nel terreno di coltura di favoritismi e familismi che, per quanto moralmente deprecabili, non è detto che siano pure penalmente rilevanti. Procediamo allora per gradi, e torniamo nella provincia siciliana, all’ombra del Palazzo degli Elefanti.
La Digos esegue 41 perquisizioni nell’ambito dell’inchiesta “Università bandita”, avviata nel luglio 2015 e conclusa, a distanza di tre anni, con l’autopsia di un “sistema delinquenziale” che decide le carriere universitarie secondo una logica di cooptazione, avulsa dal merito. 27 concorsi “truccati”, secondo la pubblica accusa: 17 per professore ordinario, 4 per professore associato, 6 per ricercatore. La procura locale ipotizza un’“associazione a delinquere”, capitanata dal rettore dell’Università Francesco Basile, volta a condizionare il conferimento di assegni, borse di studio, dottorati di ricerca, fino a ingerirsi nelle decisioni relative all’assunzione di personale tecnico-amministrativo, alla composizione degli organi statutari dell’ateneo (consiglio di amministrazione, nucleo di valutazione, collegio di disciplina) e all’assunzione e progressione in carriera dei docenti.
Nel mirino dei pm siculi ci sono i cosiddetti “concorsi locali”, quelli che, una volta conseguita l’Abilitazione scientifica nazionale, gestita direttamente dal ministero, sono preordinati al reclutamento del personale docente secondo le esigenze di ricerca e didattica del singolo ateneo. Queste procedure ristrette sono quelle che consentono accordi e scambi tra professori, tu fai passare il mio candidato e io farò altrettanto con il tuo, in un meccanismo che non è di per sé nocivo. I prof hanno remore a parlarne, nel clima infuocato innescato dall’inchiesta “pigliatutti” in pochi sono disposti a rivendicare le prerogative dell’accademia, eppure gli interrogativi che si rincorrono tra gli addetti ai lavori suonano più o meno così: perché un prof dovrebbe reclutare una persona che non ha mai visto prima in vita sua e non invece l’allievo che ha contribuito a formare, di cui conosce grado di preparazione, abilità e competenze? La pretesa “oggettività” di queste selezioni non sta in piedi, anzi chi ci crede, ma il carattere discrezionale delle scelte compiute viene rivendicato dai cosiddetti “baroni” come una precisa responsabilità istituzionale. Abbandoniamo “concorsini” e commissioni farlocche, sono pura finzione scenica: il cambiamento avvenga però per volontà politica e non per iniziativa giudiziaria.
Insomma, al bando l’ipocrisia, la selezione di docenti e ricercatori non può essere meramente curriculare, lo scambio di informazioni tra professori è fondamentale. “Con questo non s’intende sostenere che le regole attuali vadano bene. Mi spiego: la cooptazione funziona nel mondo anglosassone dove le università competono tra loro e il valore legale del titolo di studio non sanno neanche che cosa sia. Da noi invece laurearsi a Bari vale come a Milano, c’è un livellamento verso il basso che fa sì che gli atenei non abbiano un reale incentivo a reclutare i migliori, piuttosto ogni professore cerca di tenersi i propri, quelli che ha formato e conosce, indipendentemente dalle effettive esigenze di ricerca. Dunque, esiste un problema morale: la ‘ubris’ dei docenti, una buona dose di superbia mescolata all’assenza di umiltà alimenta l’assurda pretesa che i propri allievi siano i migliori a prescindere.
Mordacci: “In Italia c’è un livellamento verso il basso che fa sì che gli atenei non abbiano un reale incentivo a reclutare i migliori”
Vi è poi un problema giuridico a causa di una normativa arzigogolata e paradossale: la legge sui concorsi prevede che, in séguito all’abilitazione nazionale, le commissioni locali indichino un concorso per selezionare i migliori sulla base delle competenze in un certo settore disciplinare; nel bando, di norma, viene dettagliata l’attività didattica che il candidato è chiamato a svolgere. Allora, poniamo che in base al primo requisito si classifichi un esperto di storia rinascimentale, magari con la segnalazione del professore che l’ha formato: che succede se, in un secondo momento, ci si rende conto che il dipartimento ha invece bisogno di una persona specializzata in storia contemporanea? Talvolta l’idoneo non viene chiamato, non gli viene assegnata la cattedra, e allora s’inaugura la giostra dei ricorsi”.
Questi concorsi locali sono un po’ una finzione foriera di carte bollate e liti da Azzeccagarbugli. “Io dico che è meglio un sistema fondato sul reclutamento diretto e trasparente, senza concorso ma con una cooptazione che tenga conto di un principio di efficacia ed effettiva rispondenza alle esigenze dell’insegnamento. Il concetto dell’appartenenza di scuola non è più sufficiente, è una visione obsoleta quella che spinge un professore di impostazione hegeliana, per esempio, a reclutare i propri studenti al fine di evitare la dispersione di una tradizione filosofica; oggigiorno l’università richiede piuttosto una selezione fondata sulle competenze di settore in un ambiente competitivo, perciò i metodi di valutazione della didattica, della produzione scientifica, della ricerca devono essere effettivi e imparziali. L’attività dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario, ndr), fondata nel 2006, può essere accolta come un passo avanti: negli anni, alcuni corsi di studio sono stati giudicati adeguati, altri no”. Lei è preside di facoltà: come si regola in concreto? “La mia regola è: non fare mai promesse a nessuno, per nessuna ragione e nemmeno far supporre che…”.
Secchi: “L’accademia rischia di sprofondare nel burocratismo più becero: è ora di abolire il valore legale del titolo di studio”
Per l’economista Carlo Secchi, già rettore dell’Università Bocconi dal 2000 al 2004, “il concorso locale, così com’è, non funziona, si riduce a una burla, non a caso alcuni atenei hanno deciso autonomamente di escludere dai bandi i candidati provenienti dalla stessa università. Nel sistema anglosassone non esiste un’abilitazione nazionale come in Italia ma l’accesso alla tenure track prevede una fase di valutazione in cui si coinvolgono i massimi esperti di un determinato settore a livello internazionale. Il nostro attuale sistema invece è troppo meccanicistico nella fase locale: in certi posti funziona, in altri no, basta osservare la qualità di certi professori in circolazione... La fase di abilitazione nazionale, a mio giudizio, non dovrebbe basarsi solo su criteri bibliometrici. Oggi l’accademia rischia di sprofondare nel burocratismo più becero, invece essa deve restare altamente competitiva e attrattiva per rispondere davanti ai propri stakeholder, mercato e famiglie inclusi. Il valore legale del titolo di studio va abolito: la laurea conseguita a Terni non può valere come quella alla Sorbona, lo capisce chiunque”.
Corbellini: “Il concorso è un’idea demenziale partorita da chi non ha idea di come funzioni l’università nei paesi più avanzati del mondo”
Un pesante j’accuse. “I professori universitari si sentono parte di una casta, altrimenti sarebbero i primi a esigere, a gran voce, regole nuove. Un ente come l’Anvur, per esempio, non esiste nel mondo anglosassone: questa burocrazia, che costa centinaia di milioni di euro, ha prodotto solo cartacce e graduatorie inutili, a spese dei contribuenti. Se devo spiegare a un collega inglese che cos’è il Cun (Consiglio universitario nazionale, ndr), non trovo le parole giuste: come faccio a dirgli che esiste una specie di cupola dei professori riuniti in un super sindacato? Il collega stenta a credermi. Nel mondo anglosassone c’è la cooptazione diretta dei migliori che vengono sottoposti al giudizio di un comitato ristretto formato dai due o tre principali esperti internazionali in un determinato settore. La selezione è trasparente e dunque controllabile, c’è un criterio di accountability. Qui invece perdiamo il tempo a scandalizzarci per il caso siciliano, come se fosse l’eccezione e non la regola. Non mi riferisco agli eventuali aspetti penali su cui solo la magistratura potrà fare chiarezza, io parlo della grande impostura dei concorsi locali, finalizzati esclusivamente a conferire una parvenza di oggettività a scelte assolutamente discrezionali. La discrezionalità, in ambito accademico, non è affatto un male se si accompagna alla competitività del sapere e delle competenze. La meritocrazia non passa per i concorsi ma per la liberalizzazione delle università: basta valore legale del titolo di studio, sì alla concorrenza tra atenei, così dotati di un intrinseco incentivo a reclutare i migliori”.