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La grama vita dei velocisti alla Vuelta 2018

Giovanni Battistuzzi

Tante salite e poche volate. Questa è la "formula magica" scelta dalla corse a tappe spagnola per garantire spettacolo sempre e a ogni costo

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A vedere Elia Viviani, Giacomo Nizzolo, Nacer Bouhanni, Luka Mezgec, Ryan Gibbon e Max Walscheid nell'elenco dei partenti della Vuelta a España 2018 viene da chiedersi cosa ci siano venuti a fare. Viene da compatirli, se non altro per la fatica incredibile che faranno per cercare di evitare il tempo massimo. Perché questa Vuelta, come del resto quelle degli ultimi anni, non è una corsa per velocisti. E loro velocisti lo sono, e anche di buon rango, gente solida da quasi settanta all’ora sul rettilineo finale, gente che ha spalle larghe per lottare nelle ultime fasi della corsa. E per conquistare e tenere la posizione con il ciclocomputer costantemente sopra i cinquanta, per alzarsi sui pedali e dar fondo a energie e potenza mentre attorno si muovono altre ruote lanciate a tutta e a tutto disposte, di spalle larghe ne servono, e pure un po’ di fegato non guasta. Se va bene avranno cinque possibilità per cogliere qualcosa, se va benissimo sei, se va male chissà. Ma a eccezione di due casi (San Javier e Bermillo de Sayago), dove tutto sembra poter essere tranquillo e una volata scontata, gli altri striscioni d’arrivo se li dovranno conquistare appendendosi con i denti alla coda del gruppo per non perdere contatto. Per poi magari trovarsi alle spalle di Peter Sagan e Matteo Trentin, anche loro ruote veloci, ma non soltanto ruote veloci, perché uomini da tutte le stagioni e tutti i terreni, perché corridori tenaci e capaci di non mollare nemmeno in salita.

 

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Chi ha tracciato gli ultimi percorsi della Vuelta dev’essere senz’altro un velocista che ha fallito il suo desiderio di essere il migliore, oppure uno scalatore di quegli anni quando le cronometro imperavano e ai grimpeur venivano concesse le briciole. C’è senz’altro della vendetta nel tracciato, la volontà di escludere qualcuno, fargliela pagare per tutto lo spazio che hanno avuto negli anni Novanta. E verrebbe quasi da stringersi a loro, ai velocisti, reclamare con loro spazio e opportunità, se non fosse che più salite, solitamente, creano più spettacolo, una corsa più aperta, più spazio alle fughe. Per questo nessuno si schiererà con i velocisti, per questo tutti chiederanno loro di migliorare in salita, rendersi competitivi ovunque, al massimo di accontentarsi, piuttosto di reclamare spazio. Grama vita quella del velocista, agnello sacrificale sull’altare del ciclismo spettacolo. Perché dev’essere così, spettacolo ogni giorno e a tutti i costi.

 

E così la Vuelta si è trasformata in un collage di salite, salitone, salitine, rampe irte che più irte non si può, ascese che spaccano gambe e fiato, che mettono in fila i corridori, che li trasformano in camosci. Non c’è nulla di male, certo, è un buon modo per strizzare l’occhio alle televisioni, a chi guarda le corse dal divano o da bordo strada. Un modo per rendere la corsa affascinante, combattuta e imprevedibile. È d’altra parte quello che il pubblico chiede, ossia divertimento. Ma è un divertimento di facile godibilità, che si allontana da quello che è stato il ciclismo: narrazione. Un romanzo a pedali che regge e si tiene in piedi prima di tutto per l’esistenza delle biciclette, per la fantasia dei suoi interpreti che provano a costruire nel poco l’impossibile, che provano a ribaltare ciò che sembra già scritto grazie alla fantasia. Uno sport che per moltissimo tempo ha premiato chi vedeva in un montarozzo la via per rivolta, per la rivoluzione.

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