Il filosofo Gianni Vattimo

Gianni Vattimo, i dintorni dell'Essere

Davide D'Alessandro

L’opera di uno dei nostri maggiori filosofi può dirsi compiuta perché completa. Compiuta e costantemente aperta…

Se, come ha scritto Jung, “la vita, per compiersi, ha bisogno non della perfezione, ma della completezza”, anche l’opera di un autore non sfugge alla sentenza. E l’opera di Gianni Vattimo può dirsi compiuta perché completa, mai perfetta. Non sono l’età, 82 anni, e alcuni acciacchi a dircelo, ma Essere e dintorni, edito da La nave di Teseo, a cura di Giuseppe Iannantuono, Alberto Martinengo e Santiago Zabala. Libro non debole ma ardimentoso. Un breviario, dice lui, teologico-filosofico invece di un trattato. Vattimo ha sempre l’aria minimalista, il tono di chi vuole affermare conversando e non imponendo, eppure tra le pagine, dalla metafisica a Wittgenstein, dall’ermeneutica alla politica, dalla tecnica al nichilismo, dal cristianesimo a Heidegger, c’è il marchio originale di un pensiero mai finito, un pensiero che ritorna costantemente sui luoghi del delitto. È vero, sono saggi raccolti, nati per conferenze, lezioni, seminari e convegni, ma la matrice originaria e in divenire risulta armoniosa e compatta: “Non si arriva da nessuna parte, ci si aggira sempre nei dintorni, si permane dentro un orizzonte. È questo del resto il nostro rapporto con l’essere stesso, esso è l’apertura entro cui stiamo, niente come una struttura sistematica con inizio, mezzo, fine. Che cosa però ci si può aspettare da un pensiero così inconcludente che non pensa proprio a concludere ma che vuole restare aperto?”.

Be’, proprio questo. Un’opera che si chiude riaprendosi costantemente, direi all’infinito se il termine non spaventa, per un heideggeriano che attraversa con disincanto I quaderni neri e rilancia la forza, non la debolezza, del filosofo tedesco, “il senso di critica globale alla ‘macchinazione’ dominante nella società della totale Verwaltung nella quale ci troviamo gettati e che solo Heidegger permette di cogliere nel suo senso ontologico più radicale”. Soltanto un Heidegger può salvarci, o meglio continuare a indicarci la terra dove siamo finiti tragicamente prigionieri. Ma, nota Vattimo per altri aspetti, “che molta filosofia europea di oggi si collochi sotto il segno della tragedia non significa necessariamente che il pensiero tragico sia per tutti, anche discepoli di Pareyson, la verità della nostra condizione attuale”. Le pagine dedicate al Maestro sono tra le più significative, senza trascurare quelle su Gadamer e la centralità dell’interpretazione. Su Pareyson, sulla filosofia come ermeneutica dell’esperienza religiosa, Vattimo non ha dubbi: “La sua ortodossia di pensatore ‘cattolico’ non fu mai, e specialmente negli ultimi anni, così netta come la Chiesa avrebbe desiderato. In ogni caso, anche sul piano del rapporto tra fede, filosofia come ermeneutica del mito, da un lato, e religione come fatto pubblico, presenza di un’istituzione come la Chiesa nella vita sociale e politica (specialmente in Italia), dall’altro, l’insegnamento di Pareyson è ancora tutto da sviluppare – ed è molto ragionevole pensarlo come alternativo all’ondata di neofondamentalismo che sembra travolgerci”.

Se interpretare il mondo è trasformare il mondo, riscrivendo, come fa il filosofo torinese, la famosa frase di Marx, Vattimo chiude il libro con Heidegger, entrando nel dibattito acceso dei nostri anni, spiegando perché ancora Heidegger, perché non è possibile liquidarlo, e ritoccando anche la famosa frase dell’ultima intervista allo Spiegel: “Ormai solo un dio ci può salvare non è forse l’espressione di una disperazione senza sbocchi: ha anche il senso di evocare una possibilità di salvezza, da quel (questo) mondo del dominio totale che Heidegger aborriva non meno di altri filosofi come Adorno”. Sarà anche il motivo colto da Papa Francesco, che ha chiamato Vattimo iniziando, io credo, un dialogo non soltanto su Essere e dintorni. Un dialogo aperto come aperta resta l’opera di uno dei nostri maggiori filosofi. Compiuta e aperta. Costantemente aperta.