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Il duello di notte fra la Turchia e la Grecia

Paola Peduzzi e Micol Flammini

 L’ostilità nel mar Egeo ha anche il suo urlo (turco) di battaglia. Il tifo francese, l’equilibrismo americano e gli spazi stretti per evitare la collisione     

Possiamo arrivare di notte all’improvviso”, ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan qualche giorno fa, citando una frase che la Turchia disse prima di invadere Cipro nel 1974 e annetterne una parte. L’ha già ripetuta una paio di volte questa frase, e sempre riferendosi alla Grecia che “continua ad aggredire ogni giorno i nostri confini”, ha continuato Erdogan, fingendosi pure rassicurante quando ha aggiunto: “Finché la Grecia si comporta bene, non ci sono problemi, e non ha bisogno di temere i missili”. Il presidente turco almeno non ha ricanticchiato, come fece nel 2019, il verso di una canzone popolare che dice più o meno: affonderemo la Grecia in fondo al mare. Lo scontro tra Turchia e Grecia è materia antica, un fiume carsico di rivalità tra due paesi della Nato (entrarono nello stesso anno, il 1952) che in questo momento è in piena, complice il trambusto dentro l’Alleanza atlantica con l’allargamento a Svezia e Finlandia e il grande bazar aperto da Erdogan per scambiare il suo “sì” ai nuovi arrivati con più vantaggi possibili – ad adesso non hanno ratificato l’allargamento soltanto Ungheria e Turchia, ma se Budapest ha detto che lo farà a breve, Ankara sta ancora negoziando sul prezzo. La Grecia ne sa qualcosa di questo bazar e anche se il premier Kyriakos Mitsotakis dice che non ci sarà alcun “episodio caldo” perché conta sul buon senso di Erdogan, allo stesso tempo si rafforza militarmente e estende la costruzione della barriera difensiva sul confine con la Turchia, oggi lunga circa quaranta chilometri. Ci sono le isole contese dell’Egeo, c’è la sempiterna questione di Cipro, ci sono i migranti e c’è una sfiducia storica tra i due paesi che si sono mossi spesso in sincrono come duellanti che si posizionano prima di colpirsi: sulla spesa militare è andata proprio così. 

 

La spesa militare. La Grecia è uno dei pochi membri della Nato che spende il due per cento (e anche di più) del proprio pil per la difesa. La spesa greca per le acquisizioni militari da sola dovrebbe raggiungere 1,5-2 miliardi di euro all’anno entro il 2028. Secondo l’indice del Military Strength Ranking, il budget totale della Grecia  è di 6 miliardi di dollari: è il trentatreesimo paese nella classifica mondiale. Ankara ha aumentato il suo budget per la difesa perché, oltre a tutelare “i propri interessi” nel Mar Egeo, è impegnata in Siria e in Libia. Nel 2022, il bilancio militare previsto era di 9,69 miliardi di dollari, cioè circa il 5 per cento del suo pil, ed è al ventiquattresimo posto nella classifica delle spese militari a livello globale. Quando si dice correttamente che la Turchia ha il secondo esercito più grande della Nato dopo gli Stati Uniti si intende il numero di uomini a disposizione: sono 425 mila (c’è la leva obbligatoria da compiere tra i 21 e i 41 anni, dura un anno). In Grecia il personale militare attivo varia dalle 130 alle 140 mila unità (anche qui c’è la leva obbligatoria), i riservisti sono di più rispetto alla Turchia, ma poi c’è una voce, le forze paramilitari, che scombussola un po’ i conti, perché secondo le stime i paramilitari turchi sono 150 mila, quelli greci 35 mila. Se si pensa però alle differenze di popolazione – 84 milioni di turchi, 10 milioni di greci – diventa molto più evidente lo sforzo che sta facendo la Grecia, che potremmo definire: armata fino ai denti, se non fosse che la Turchia, proprio come la Russia, è molto suscettibile e prende ogni volontà di difesa come una provocazione. Infine, se dal punto di vista navale non ci sono grandi differenze, ce ne sono parecchie dal punto di vista aereo, tanto che molti dicono che se davvero la Turchia dovesse presentarsi inattesa all’improvviso di notte in Grecia, probabilmente arriverebbe dal cielo.

 

Entrambi i paesi hanno aumentato la spesa militare, Atene soprattutto. Gli aerei da guerra promessi da Washington

 

L’equilibrista americano. L’Amministrazione Biden sta considerando la vendita di jet F-16 alla Turchia e di caccia  F-35 di quinta generazione alla Grecia, cosa che come è facile immaginare ha allarmato Erdogan. L’obiettivo di Washington è chiaro: vuole mantenere in equilibrio i due alleati della Nato nel mar Egeo. Secondo il Wall Street Journal, che è stato il primo a rivelare le pressioni del presidente americano sul Congresso, la Casa Bianca spera che con l’approvazione dell’accordo turco sugli F-16, Ankara farà cadere le sue obiezioni all’adesione di Finlandia e Svezia alla Nato. Ma se le vendite alla Grecia sono di facile passaggio al Congresso, con la Turchia è tutto più complicato a causa delle ambiguità turche e della sospensione, già nel 2019, di un’altra commessa militare diretta ad Ankara. Le ragioni specifiche variano, ma quelle generale sono sempre le stesse: fidarsi di Erdogan è un rischio. 

 

L’amico francese. Un anno fa, l’arrivo alla base aerea di Tanagra, a poco più di settanta chilometri da Atene, di sei jet Rafale di quarta generazione giunti dall’aeroporto di Bordeaux fu accolto con una cerimonia e la benedizione di un prete ortodosso. Qualche mese dopo, c’è stata un’altra commessa militare che comprendeva sei Rafale e tre fregate, il suggello militare a un sostegno molto deciso di Parigi alla Grecia, soprattutto in chiave antiturca. Quando qualche anno fa Emmanuel Macron pronunciò la celebre – e per nostra fortuna invecchiata malissimo – frase sulla Nato in stato comatoso e quindi da ripensare, ce l’aveva proprio con la Turchia e con la sua politica sempre in ostilità con i suoi stessi alleati. Alla fine del 2021, Parigi e Atene hanno firmato un accordo di Partnership strategica, rinnovato lo scorso anno durante una visita di Mitsotakis dal presidente francese che, avendo negli occhi la guerra in Ucraina e l’aggressione russa, aveva detto che “la sovranità” della Grecia non era in discussione da nessuna parte (alludeva alle isole che la Turchia rivendica) e che la Francia si riteneva responsabile della sua difesa da qualsiasi eventuale attacco. Mitsotakis aveva precisato, nel caso ci fosse qualche dubbio: “A quelli che dicono che verranno di notte: vi stiamo aspettando alla luce del giorno, dove si vede chi ha il diritto e il potere dalla sua parte”.

 

L’urlo di battaglia. Alla rivalità con la Grecia, e non solo, la Turchia ha anche dato un nome: Mavi vatan, che vuol dire “patria blu”. Il concetto torna spesso nei discorsi di Erdogan, spesso Mavi vatan serve ad accendere i suoi comizi e a infiammare le sue promesse. Il suo principale sostenitore è l’ammiraglio ormai in pensione Cem Gürdeniz, che decise di trasformare l’urlo di battaglia in una dottrina che racchiudesse gli interessi marittimi della Turchia, e per rendere il concetto ancora più solido, l’idea fu di dare anche a un’esercitazione militare il nome Mavi vatan. Era il 2019 e la Marina turca diede prova di tutte le sue pretese sulla giurisdizione marittima e soprattutto del suo potenziale. Nel 2020, in un agosto pandemico in cui tutti gli occhi erano rivolti a Kabul e all’avanzata dei talebani, Erdogan decise di dare ancora una prova del significato di Mavi vatan: mandò una nave scortata da altre cinque navi da guerra per condurre perlustrazioni su possibili risorse di idrocarburi nelle acque che rivendica. Ci fu una collisione tra una nave turca e una greca. Un mese dopo, al Mavi vatan venne anche dedicato un inno presentato con un video con immagini dal sentore  ottomano. Il Mavi vatan ha anche le sue cartine geografiche, in cui la Turchia appare più ampia, spesso ai danni del territorio greco, e i suoi obiettivi sono tre: rendere Ankara una potenza marittima regionale, sostenere le sue rivendicazioni e contrastare l’occidente. Vuole essere riconosciuta come la potenza del Mediterraneo e siccome è un punto su cui si sono concentrate le ambizioni di molti, per raggiungerlo è pronta ad allearsi con paesi che nulla hanno a che fare con la sua appartenenza all’Alleanza atlantica, come Russia e Cina. Il malfunzionamento del pensiero turco è tutto qui: Erdogan, che basa il suo consenso anche sull’immagine di una Turchia forte e assertiva, lo fa a spese del suo alleato. 

 

Mavi vatan, patria blu, è la dottrina di Ankara per affermare la propria egemonia. Ha anche le sue cartine 

 

L’isola dal castello rosso. L’isola greca più lontana dalla terraferma ellenica è Kastellorizo, si trova a 80 miglia da Rodi ma a un solo miglio dalla Turchia. Mussolini la cedette ai turchi, ma nel 1947 venne riconosciuta la nazionalità greca dell’isola. Per un turista, l’elemento più celebre di Kastellorizo è il suo castello rosso che è stato costruito dai cavalieri do San Giovanni nel 1300. C’è un porto, che costituisce la parte abitata, Magisti, ci sono edifici in stile neoclassico, acque blu, la magia che riconosciamo intatta nel “Mediterraneo” di Salvatores. Un paradiso conteso che la Turchia vuole a tutti i costi per rendere la sua zona economica esclusiva molto più ampia, a spese  della Grecia, ma predominante rispetto ad altri vicini. Le rivendicazioni su Kastellorizo, su Cipro, sul gas, sulle acque, sulle armi, si aggiungono all’altra contesa: i migranti. 

 

I migranti. “Siamo rattristati dall’indifferenza di fronte alle immagini che spezzano il cuore e che arrivano dalle zone di confine, con campi profughi che somigliano a quelli dei nazisti”, aveva detto Erdogan prima di Natale parlando dei migranti ammassati in Grecia. Soltanto nel 2022 però la stessa Turchia si è resa responsabile del respingimento di quasi 120 mila profughi, soprattutto siriani e afghani. La violazione del diritto internazionale è il prezzo da pagare per rispettare gli accordi siglati fra la Turchia e l’Ue nel 2016, che hanno portato circa 6 miliardi di euro nelle casse di Ankara pur di tenere lontani i migranti dall’Europa. Operazione riuscita, ha esultato due giorni fa il governo greco: “Nel 2021 abbiamo avuto l’afflusso di migranti più basso degli ultimi 10 anni, con 8.745 arrivi, livello che si è mantenuto costante anche nel 2022”, ha detto il ministro per l’Immigrazione Notis Mitarachi. E questo, accusa Atene, è avvenuto nonostante la Turchia abbia fatto di tutto per non rispettare gli impegni presi con l’Ue, aprendo e chiudendo in modo arbitrario i rubinetti dei migranti che cercavano di raggiungere l’Ue attraversando la terra ferma e l’Egeo. Una tesi falsa, è la replica di Ankara, che invece denuncia oltre 40 mila respingimenti illegali compiuti dalle forze di sicurezza greche dal 2020 (l’Onu conferma). Nel frattempo, con il placet della Commissione europea e soprattutto dei paesi dell’Europa centrale, i greci si apprestano a costruire 140 chilometri di muro in filo spinato lungo i confini terrestri con la Turchia, vicino al fiume Maritsa. L’obiettivo è bloccare la rotta balcanica che, secondo i dati Frontex, è quella che cresce di più registrando un più 136 per cento nel 2022. A proposito di Frontex, l’agenzia negli ultimi tempi è finita nei guai – tra le altre cose – proprio per avere coperto i respingimenti dei migranti da parte della Grecia. Ora, un esperto di immigrazione, Bernd Parusel dello Swedish Institute for European Policy Studies, ha proposto una soluzione controintuitiva: invece di ritirare Frontex in caso di violazioni dei diritti umani, Parusel propone di aumentarne gli effettivi nell’Egeo e in tutte le zone di confine, per monitorare con più attenzione cosa avviene. Ma che greci e turchi siano d’accordo appare parecchio difficile.

 

Ieri Erdogan ha detto che le elezioni in Turchia si terranno il 14 maggio e non il 18 giugno, come era stato precedentemente annunciato. Il 14 maggio non è una data a caso: il presidente turco, proprio come Putin, ama ripercorrere la storia interpretandola a modo suo, e il 14 maggio del 1950 si tennero le prime elezioni libere della Turchia, fu eletto primo ministro Adnan Menderes, che Erdogan ha spesso citato come ispiratore, e che dieci anni dopo sarebbe stato cacciato dalla giunta militare, e ucciso. Poiché gli incroci tra Grecia e Turchia non finiscono mai, anche i greci andranno al voto in primavera: da aprile in poi ogni momento è buono, ha detto Mitsotakis. Persino il calendario elettorale sembra disegnato da duellanti che si posizionano, prima di colpirsi, chissà se di notte, chissà se dal cielo, chissà se invece l’equilibrio tessuto dagli americani reggerà ancora, e finché serve. 

 

(ha collaborato Luca Gambardella)