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Euporn - il lato sexy dell'europa

Occhio alle strane alleanze contro la Cina rapace

Paola Peduzzi e Micol Flammini

 I sovranisti dicono che la loro prossima battaglia epocale in Europa è contro Pechino (i diritti umani non c’entrano). Dati e convergenze di un nuovo assetto poco stabile

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Quest’anno il forum di Davos è stato molto ignorato: dev’essere che passiamo troppo tempo a guardarci attraverso gli schermi, o forse che quel che diventa accessibile a tutti perde subito di interesse. Comunque sia: è stato un errore ignorare Davos, perché nei discorsi dei leader presenti si vedeva chiara la trama delle prossime sfide in corso. L’America non cambierà atteggiamento con la Cina (soltanto i toni), l’Europa insisterà nel trovare la sua autonomia anche rispetto allo scontro America e Cina. Poi c’è la faccenda ideologica: un’eredità del trumpismo è proprio essere anticinesi. Se Steve Bannon sta ancora manovrando dietro le quinte il sovranismo internazionale come molti dicono, in Europa lo sta strutturando in modalità anticinese. Con qualche contraddizione, per esempio quella dell’ungherese Orbán, che è il più bravo di tutti secondo Bannon ma che pare anche molto accondiscendente nei confronti della Cina. Che succederà allora, aveva ragione l’intellettuale ungherese Ágnes Heller quando ci disse: questi sovranisti finiranno per prendersi a calci uno con l’altro? E nel frattempo l’Europa riuscirà a mantenere la propria autonomia esercitando nel contempo uno dei princìpi del multilateralismo citati da Angela Merkel proprio a Davos? Dice così: “Chiediamoci dove sta il limite tra immischiarsi nelle faccende di altri stati, e difendere e chiedere il rispetto di diritti fondamentali e condivisi”. Intanto noi ci siamo immischiate negli affari europei con la Cina, e viceversa. 

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Quest’anno il forum di Davos è stato molto ignorato: dev’essere che passiamo troppo tempo a guardarci attraverso gli schermi, o forse che quel che diventa accessibile a tutti perde subito di interesse. Comunque sia: è stato un errore ignorare Davos, perché nei discorsi dei leader presenti si vedeva chiara la trama delle prossime sfide in corso. L’America non cambierà atteggiamento con la Cina (soltanto i toni), l’Europa insisterà nel trovare la sua autonomia anche rispetto allo scontro America e Cina. Poi c’è la faccenda ideologica: un’eredità del trumpismo è proprio essere anticinesi. Se Steve Bannon sta ancora manovrando dietro le quinte il sovranismo internazionale come molti dicono, in Europa lo sta strutturando in modalità anticinese. Con qualche contraddizione, per esempio quella dell’ungherese Orbán, che è il più bravo di tutti secondo Bannon ma che pare anche molto accondiscendente nei confronti della Cina. Che succederà allora, aveva ragione l’intellettuale ungherese Ágnes Heller quando ci disse: questi sovranisti finiranno per prendersi a calci uno con l’altro? E nel frattempo l’Europa riuscirà a mantenere la propria autonomia esercitando nel contempo uno dei princìpi del multilateralismo citati da Angela Merkel proprio a Davos? Dice così: “Chiediamoci dove sta il limite tra immischiarsi nelle faccende di altri stati, e difendere e chiedere il rispetto di diritti fondamentali e condivisi”. Intanto noi ci siamo immischiate negli affari europei con la Cina, e viceversa. 

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Un accordo criticato. La Commissione europea la scorsa settimana ha reso pubblico il testo della bozza dell’accordo sugli investimenti con la Cina (Cai) concluso in tutta fretta il 31 dicembre 2020, malgrado la richiesta della squadra di transizione di Joe Biden di aspettare per discuterne con la nuova Amministrazione. L’intesa è stata voluta dalla cancelliera tedesca, Angela Merkel, con la complicità del presidente francese, Emmanuel Macron. La giustificazione è che, con questo accordo, l’Ue ottiene dalla Cina un riequilibrio nell’asimmetria sull’accesso ai rispettivi mercati e si ritrova nella stessa posizione degli Stati Uniti dopo l’intesa “Fase Uno” ottenuta da Donald Trump. Ma la Commissione è stata molto criticata per la tempistica dell’accordo. Xi Jinping ottiene un successo geopolitico grande mentre è in corso la nuova Guerra fredda con gli Stati Uniti, calpesta le libertà di Hong Kong, rinchiude in campi di rieducazione  milioni di uiguri nello Xinjiang, sanziona l’Australia con dei dazi per la richiesta di un’indagine indipendente sulle origini del coronavirus. Ci si può fidare di Pechino quando  vìola apertamente gli obblighi che aveva sottoscritto con il Regno Unito su Hong Kong? La Commissione spera di calmare tutti durante il percorso (lungo) che porta alla ratifica dell’accordo. Servirà quasi un anno per finalizzare e tradurre i testi legali. Solo a fine 2021 o inizio 2022 è atteso il via libera all’accordo sugli investimenti da parte dei governi e del Parlamento europeo. E l’esito non è scontato.

 

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I rapporti con Pechino creano sostegni impensabili dentro al Pe ma  dividono la coppia   indivisibile di Visegrád: Polonia e Ungheria

 

Strane alleanze  anticinesi. E’ dal Parlamento europeo che arrivano le critiche più pesanti all’accordo. Tanto più che nella plenaria di Strasburgo si sta formando una strana alleanza tra difensori dei diritti umani e sovranisti di estrema destra. Verdi e liberali sono contrari all’intesa. Nel gruppo socialista è il francese Raphaël Glucksmann a fare da contrappeso ai pro cinesi della Spd tedesca. Nel gruppo dei popolari, i nordici hanno qualche obiezione rispetto all’entusiasmo della Cdu tedesca. La maggioranza che sostiene Ursula von der Leyen potrebbe spaccarsi. E paradossalmente il voto decisivo potrebbe essere quello del gruppo di estrema destra Identità e democrazia di cui fa parte la Lega di Matteo Salvini. La contrarietà dei sovranisti all’accordo non è dettata esclusivamente dalla loro ostilità al commercio e al libero mercato. Dopo la sconfitta di Donald Trump, in una parte dell’internazionale nazionalista c’è stato un cambio di agenda strategico, con la Cina che ha scalato la gerarchia delle priorità. Il principale obiettivo dei loro attacchi non è più l’Ue, l’euro o l’establishment. Il principale bersaglio sono diventati la Cina, il “virus cinese” e un presunto complotto cinese per soggiogare il mondo attraverso il virus. Il 3 gennaio, Nigel Farage ha  caricato gli altri sovranisti. Dopo l’accordo sulla Brexit “nel 2021 inizia la mia nuova campagna: non essere più dipendenti dalla Cina”, ha annunciato Farage. “La prossima grande sfida è più grande di quella dell’Ue, perché si tratta di una minaccia più grande alla nostra indipendenza, al nostro stile di vita e alla nostra libertà. La mia prossima campagna è di assicurarmi che la gente capisca cos’è la Cina, cosa è il Partito comunista, cosa fa ai suoi cittadini, cosa vuole fare al resto del mondo”, ha detto Farage. Ma l’estrema destra identitaria del vecchio continente deve fare i conti anche con i musulmani. Condannare la Cina per l’internamento e il lavoro forzato degli uiguri? Il Parlamento europeo ha approvato il 17 dicembre scorso una risoluzione. Il gruppo Identità e democrazia si è spaccato in tre: la Lega ha votato per condannare la Cina, i fiamminghi del Vlaams Belang si sono opposti, mentre il Rassemblement national di Marine Le Pen ha scelto di astenersi.

 

Le linee di Visegrád. L’Ungheria è tra i paesi più disposti ad aprirsi alla Cina. Al di là di progetti e investimenti, poche settimane fa ha annunciato che nel 2024 aprirà a Budapest l’università Fudan di Shanghai. Il premier Viktor Orbán, lamentandosi del piano europeo per i vaccini, ha espresso interesse per i vaccini cinesi, sui quali si sa ben poco. L’Ungheria, con la sua poca libertà di stampa e con il disinteresse del premier sovranista per i diritti umani è un terreno ideale per i cinesi. Ma attorno all’Ungheria, gli altri partner del gruppo di Visegrád, tutti aderenti al programma “16+1”, un modello di cooperazione economica tra Cina e paesi dell’Europa centrale e orientale, non sostengono la passione cinese di Orbán. Le fratture dentro al gruppo di Visegrád sono trasversali. Se Polonia e Ungheria, per esempio, erano pronte entrambe  a mettere il veto al bilancio pluriennale e al Recovery fund, se sono unite nella loro battaglia contro lo stato di diritto, non mostrano la stessa unità sul posizionamento internazionale. La fede atlantista di Varsavia non è condivisa da Budapest. Così come il legame che l’Ungheria coltiva con la Russia non è appoggiato dalla Polonia, neppure il corteggiamento alla Cina lo è. E se la Repubblica ceca aveva stretto un rapporto di collaborazione con Pechino, voluto dal presidente populista Milos Zeman, gli anni fatti di perdita di sovranità, interferenze politiche e nessun beneficio economico hanno fatto fare a tanti politici  un passo indietro. Il sindaco di Praga, Zdanek Hrib, è  tra i più accesi contestatori della Cina: due anni fa a un ricevimento aveva fatto trovare all’ambasciatore di Pechino il rappresentante di Taiwan. Il cinese se ne era andato dicendo che esisteva una sola Cina e quindi un solo diplomatico. Varsavia non ne fa una questione di diritti, è una questione di sfiducia molto profonda. Con l’arrivo della pandemia, la Polonia ha inasprito le sue posizioni, tanto da essersi espressa contro il Cai. Un altro fattore importante che influenza le relazioni tra Cina e Polonia è lo sviluppo della rete 5G. La Polonia ha pubblicato un progetto di legge sulla sicurezza informatica, che prevede la divisioni dei fornitori della rete 5G in quattro gruppi stabiliti a seconda della loro potenziale minaccia, della possibilità che il fornitore possa essere influenzato da un paese non europeo e non della Nato, e del rispetto dei diritti umani. Huawei ha accusato la Polonia di aver messo dei paletti politici. A dettare questo atteggiamento fortemente anticinese è il rapporto molto stretto con gli Stati Uniti: che a Washington ci sia Donald Trump o Joe Biden, Varsavia rimane  atlantista. 

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Il Pireo rimane il caso scuola, dal 2000 gli investimenti cinesi in Ue sono andati soprattutto verso i paesi occidentali e scandinavi

 

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Dove mette i soldi Pechino. Il caso di scuola menzionato più frequentemente per spiegare le attività predatorie della Cina nell’Ue è quello del porto del Pireo, in Grecia, uno dei più strategici del Mediterraneo. Gli investimenti della Cosco Shipping, colosso di stato cinese che opera nel trasporto marittimo, iniziano nel 2008, in piena crisi finanziaria internazionale. All’inizio il governo greco aveva concesso alla Cosco la gestione operativa del secondo e terzo molo per un periodo di 35 anni. Mentre i container cinesi iniziavano a intensificare il traffico nel Pireo, la Cosco decideva per un nuovo enorme investimento da oltre duecento milioni di euro per allargare il terzo molo. Tre anni dopo la Cina era già sufficientemente potente per firmare un contratto con l’Autorità portuale del Pireo e il governo greco e acquisire il 51 per cento delle quote di proprietà dell’hub marittimo. Nel frattempo nel 2018 Atene aderisce alla Via della Seta, e vengono promessi altri 600 milioni di euro di investimenti. Ma quando il governo Tsipras cade, il centrodestra inizia a scrutinare le attività cinesi nell’area, già criticate da Bruxelles e Washington. Un mese fa la Cosco ha chiesto  l’acquisizione dell’ulteriore 16 per cento della proprietà, ma il governo greco sta prendendo tempo.  Gli investimenti diretti sono parte della strategia cinese per l’influenza strategica in Europa, ma ci sono anche i prestiti. L’altro esempio è quello dell’Ungheria, che a maggio dello scorso anno ha firmato un accordo con la Cina per un prestito finalizzato alla costruzione del collegamento ferroviario tra Budapest e Belgrado.  La ferrovia dovrebbe costare 2,1 miliardi di dollari, e Pechino ne avrebbe finanziato l’85 per cento. Sono stati dati pochi dettagli su sistema di pagamento e interessi, ma secondo diversi analisti questo crescente attivismo di Pechino a concedere prestiti all’estero aumenta il rischio della cosiddetta “trappola del debito” per i paesi che non riescono a ripagare. “Tra il 2000 e il 2019, la maggior parte degli investimenti cinesi diretti in Europa è andata verso i paesi dell’Europa occidentale e scandinavi”, si legge in un recente report del Merics. “Nel 2016, un’ondata di investimenti cinesi statali in Europa (36 miliardi di euro) ha portato Francia, Germania e Italia a chiedere alla Commissione europea di elaborare un quadro di screening per proteggere le industrie strategiche”, meccanismo che è diventato operativo nell’ottobre del 2020. Con l’aumento della consapevolezza dei governi, negli ultimi due anni è cambiata molto la geografia degli investimenti diretti cinesi in Europa. Secondo il Merics Regno Unito, Germania e Francia, che erano tradizionalmente i paesi a ricevere più investimenti (il 71 per cento del totale nel 2017), nel 2019 ne hanno ricevuti soltanto il 34,6 per cento. Più della metà degli investimenti diretti cinesi sono andati all’Europa del nord:  la finlandese Amer è stata acquistata dalla cinese Anta per 4,6 miliardi di euro, l’Evergrande Group ha preso il controllo della svedese National Electric Vehicle per 931 milioni di dollari. Sempre nel 2019 l’Europa del sud ha ricevuto meno del 10 per cento di investimenti diretti cinesi e l’Europa dell’est “è passata dal 2 per cento nel 2018 al 3 per cento nel 2019”.


C’è chi dice che l’Europa non troverà la propria autonomia con la Cina, ma che al contrario proprio la Cina contribuirà a dividerci sempre più. Come andrà non si sa, ma intanto noi ci perdiamo nei mille dettagli di “Summits”, il minidocumentario sui lavori del Consiglio europeo di Charles Michel, nel 2019 e nel 2020. A ogni auto, stanza, bilaterale, conferenza stampa, a ogni bandiera che viene urtata e rialzata, a ogni sguardo torvo e a ogni sorriso rubato pensiamo solo: ma che ne sanno gli altri. 

 

(hanno collaborato David Carretta e Giulia Pompili)

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