Le commemorazioni in Normandia per gli ottant'anni dal D-Day - foto via Getty Images

1944 - 2024

Contro il pacifismo assoluto: le parole di Ratzinger ricordando il D-Day 

Joseph Ratzinger

"La difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, fare ricorso a una forza commisurata", altrimenti significa "capitolare davanti all’iniquità". Il discorso del cardinale Joseph Ratzinger il 4 giugno del 2004

Pubblichiamo ampi stralci del discorso che il cardinale Joseph Ratzinger, allora prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, pronunciò il 4 giugno del 2004 in Normandia, in occasione delle celebrazioni per il 60esimo anniversario dello sbarco alleato. Il testo è stato pubblicato integralmente nel numero 5 (2004) della rivista Vita e Pensiero.
 



Quando, il 5 giugno 1944, iniziò lo sbarco delle truppe alleate nella Francia occupata dalla Wermacht, l’evento rappresentò per il mondo intero, compresa una gran parte dei tedeschi, un segnale di speranza: la speranza che in Europa presto sarebbero arrivate la pace e la libertà. Che cos’era accaduto? Un criminale con i suoi accoliti era riuscito a impadronirsi del potere in Germania. Sotto il dominio del Partito, il diritto e l’ingiustizia si erano intricati tra loro in maniera pressoché indissolubile, tanto da travasarsi spesso l’uno nell’altra e viceversa. Questo perché un regime diretto da un criminale esercitava anche le funzioni classiche dello Stato e dei suoi ordinamenti, così che aveva facoltà, in un certo senso, di esigere di diritto l’obbedienza dei cittadini e il loro rispetto nei confronti dell’autorità dello Stato (Rm 12, 1 e seg.) ma nello stesso tempo utilizzava gli strumenti del diritto come mezzi per i suoi scopi criminali. Lo stesso Stato di diritto, che in parte continuava a funzionare nelle sue forme abituali all’interno della vita quotidiana, era diventato una potenza che distruggeva il diritto: la perversione degli ordinamenti, che dovevano servire la giustizia e contemporaneamente consolidavano e rendevano impenetrabile il dominio dell’iniquità, si traduceva in un dominio esteso e profondo della menzogna, tale da oscurare le coscienze.
 

Al servizio di questo dominio della menzogna stava un regime di paura, nel quale nessuno poteva fidarsi dell’altro perché tutti in qualche modo dovevano proteggersi sotto la maschera della menzogna. Così fu di fatto necessario che il mondo intero intervenisse a spezzare il cerchio dell’azione criminale, perché fossero ristabiliti la libertà e il diritto. Oggi noi siamo grati al fatto che questo sia avvenuto, e a esser grati non sono soltanto i paesi occupati dalle truppe tedesche. Noi stessi, i tedeschi, siamo grati perché, con l’aiuto di quell’impegno, abbiamo recuperato la libertà e il diritto.
 

Se mai si è verificato nella storia un bellum iustum è qui che lo troviamo, nell’impegno degli Alleati, perché il loro intervento operava nei suoi esiti anche per il bene di coloro contro il cui paese era condotta la guerra. Questa constatazione mi pare importante perché mostra, sulla base di un evento storico, l’insostenibilità di un pacifismo assoluto. Il che non ci esenta in alcun modo dal porci con molto rigore la domanda se oggi sia ancora possibile, e a quali condizioni, qualcosa di simile a una guerra giusta, vale a dire un intervento militare, posto al servizio della pace e guidato dai suoi criteri morali, contro i regimi ingiusti. Soprattutto, si spera che quel che abbiamo fin qui detto aiuti a comprendere meglio che la pace e il diritto, la pace e la giustizia sono inseparabilmente interconnessi. Quando il diritto è distrutto, quando l’ingiustizia prende il potere, la pace è sempre minacciata ed è già, almeno in parte, compromessa.
 

In Europa, a partire dalla fine delle ostilità, nel maggio 1945, ci è stato dato di vivere un periodo di pace lungo come non mai in tutto il corso della storia del continente. Questo in gran parte per merito della prima generazione di politici che hanno operato nel dopoguerra Churchill, Adenauer, Schumann, De Gasperi.
 

A loro dobbiamo ancor oggi gratitudine, e dobbiamo essere grati che a guidare in maniera determinante la loro politica non fu un’idea di rivalsa, o di vendetta, o di umiliazione dei vinti ma il dovere di garantire a tutti un diritto; che in luogo della concorrenza fu introdotta la collaborazione, lo scambio di doni offerti e accettati, la mutua conoscenza e l’amicizia nel cuore di una diversità nella quale ciascuna nazione conserva la sua identità e la conserva nella comune responsabilità nei confronti del diritto, in luogo della precedente perversione del diritto.
 

Il centro motore di quella politica di pace fu il legame fra l’agire politico e la morale. Il discrimine interno a qualsiasi politica è costituito dai valori morali che noi non inventiamo: essi esistono e sono gli stessi per tutti gli uomini. Diciamolo apertamente: quegli uomini politici hanno fondato la loro idea morale dello Stato, della pace e della responsabilità sulla loro fede cristiana, che aveva superato la prova dell’illuminismo e si era ampiamente purificata nel confronto con la distorsione del diritto e della morale operata dal Partito.
 

Essi non volevano costruire uno Stato confessionale bensì uno Stato che prendesse forma attraverso l’etica. A ciò si aggiunge in verità il fatto che l’Europa era divisa da una frontiera che non attraversava soltanto il nostro continente bensì il mondo intero. Una grande parte dell’Europa centrale e dell’Europa orientale si trovava sotto il dominio di un’ideologia che passava attraverso il Partito e sottometteva lo Stato al Partito, trasformandolo esso stesso in partito. Anche qui ne derivava un dominio della menzogna. Dopo il crollo di queste dittature, sono emersi con chiarezza i disastri economici, ideologici e spirituali da esse generati. Nei Balcani si è arrivati a conflitti armati nei quali senza alcun dubbio tutto il peso storico del passato produceva per parte sua ulteriori esplosioni di violenza. Ma sottolineare il carattere criminale di quei regimi ed essere felici che siano stati rovesciati non ci esime dal chiederci perché, alla maggior parte dei popoli africani e asiatici, a quei paesi che erano detti “non allineati”, il regime dell’est appariva più morale e più realizzabile come modello rispetto all’ordinamento politico e giuridico dell’occidente. È un sintomo, questo, di alcune deficienze nella nostra struttura, deficienze sulle quali dobbiamo riflettere.
 

Se è vero che l’Europa ha conosciuto dopo il 1945 un periodo di pace, a parte l’eccezione costituita dai conflitti nei Balcani, tuttavia la situazione del mondo nel suo insieme è stata tutt’altro che pacifica. (…) Non c’è modo qui di precisare più in profondità la natura di ciascuna di queste guerre le cui ferite continuano a sanguinare. Ma vorrei chiarire un po’ meglio due fenomeni in qualche modo nuovi, nei quali prende evidenza la minaccia specifica del nostro tempo, e dunque anche i compiti specifici di una ricerca della pace.
 

Il primo fenomeno consiste nel fatto che l’ordine giuridico sembra esplodere, e con esso la capacità di coabitazione tra comunità differenti. Un esempio tipico di tracollo della forza del diritto e di conseguente trionfo del caos e dell’anarchia mi sembra essere evidente in Somalia, ma anche la Liberia offre un esempio di come una società si disgreghi dall’interno quando l’autorità dello Stato non è in grado di presentarsi come istanza credibile di pace e di libertà e ciascuno è indotto a difendere il suo diritto da sé e con la forza. Abbiamo assistito a qualcosa di simile anche in Europa, in seguito alla deflagrazione dello Stato yugoslavo unitario. Popolazioni che, nonostante le forti tensioni interne, per generazioni hanno vissuto insieme pacificamente si sono improvvisamente levate le une contro le altre con una crudeltà inaudita. Si è trattato di un crollo spirituale: le barriere protettive preesistenti non hanno retto al crearsi di una nuova situazione e l’arsenale di inimicizia e di violenza che era annidato nel profondo delle anime, trattenuto fino a quel momento dalla forza del diritto e dalla storia comune, è esploso senza freni. Come è stato possibile? E come è stato possibile che, improvvisamente, in Ruanda, la coabitazione tra hutu e tutsi precipitasse in un’ostilità sanguinosa da ambo le parti?
 

Le cause di questo crollo del diritto e della capacità di riconciliazione sono certamente molteplici. Possiamo evocarne diverse: il cinismo dell’ideologia aveva oscurato le coscienze, le promesse di quell’ideologia giustificavano ogni mezzo apparentemente idoneo a realizzarle e così avevano abolito la nozione stessa del diritto, quando non la distinzione tra bene e male. Accanto al cinismo delle ideologie, e spesso in stretta connessione, opera poi il cinismo degli interessi e dei grandi mercati, lo sfruttamento senza limiti delle risorse della terra. Anche così, in nome del profitto, il bene viene messo da parte e il potere sostituisce il diritto. Anche così la forza dell’ethos si dissolve dall’interno, con la conseguenza finale che lo stesso profitto ne risulta distrutto. (…)
 

L’altro fenomeno che oggi sommamente ci opprime è il terrorismo. È diventato col tempo una sorta di nuova guerra mondiale: una guerra senza un fronte fisso, che può colpire ovunque e non conosce distinzione tra combattenti e popolazione civile, tra colpevoli e innocenti. Dato che il terrorismo, ma anche la criminalità organizzata ordinaria – la cui rete si rafforza e si estende ogni giorno di più – possono trovare l’accesso alle armi nucleari e a quelle biologiche, il pericolo che ci minaccia è smisurato: finché questo potenziale distruttivo era sotto il controllo esclusivo delle grandi potenze si poteva sempre sperare che la ragione e la consapevolezza della minaccia che il loro uso rappresentava per la popolazione e per lo Stato ne escludessero l’utilizzo. In effetti, nonostante tutte le tensioni che hanno caratterizzato i rapporti tra l’est e l’ovest, una guerra su larga scala grazie a Dio ci è stata risparmiata. Ma le organizzazioni terroriste e quelle criminali non hanno niente a che vedere con quel tipo di ragione, dato che uno dei pilastri del terrore poggia sulla disponibilità all’autodistruzione, un’autodistruzione trasfigurata in martirio e tradotta in promessa.
 

Che cosa possiamo e dobbiamo fare in questa situazione? Prima di tutto è bene soffermarsi su alcune verità fondamentali. Non è possibile venire a capo del terrore, cioè della forza opposta al diritto e separata dalla morale, con il solo mezzo della forza. Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. Ma per evitare che la forza del diritto si trasformi essa stessa in iniquità, è necessario sottometterla a criteri rigorosi e riconoscibili come tali da parte di tutti. Essa deve interrogarsi sulle cause del terrore, il quale spesso trova la sua scaturigine in una situazione di ingiustizia alla quale non vengono opposte misure efficaci. Soprattutto è importante in queste situazioni rinnovare costantemente un’offerta di perdono, al fine di spezzare la spirale della violenza.
 

Là dove, infatti, viene applicata senza quartiere la regola dell’“occhio per occhio”, non c’è via d’uscita dalla violenza. Sono necessari gesti d’umanità che, rompendo con la violenza, cerchino nell’altro l’uomo e lo richiamino alla sua umanità, anche dove ciò appaia a prima vista come una perdita di tempo. (…) Nell’attuale scontro tra le grandi democrazie e il terrore di matrice islamica entrano in gioco questioni le cui radici sono ancor più profonde. Sembra di assistere oggi allo scontro tra due grandi sistemi culturali i quali sono caratterizzati in verità da forme molto diverse di potenza e di orientamento morale: l’occidente e l’islam.
 

E tuttavia, che cos’è l’occidente? E che cos’è l’islam? Entrambi sono mondi polimorfi, e sono mondi anche interagenti. In questo senso è dunque un errore opporre globalmente occidente e islam. C’è chi tuttavia tende ad approfondire ulteriormente questa opposizione, interpretandola come scontro tra la ragione illuminata e una forma di religione fondamentalista e fanatica. Si tratterebbe dunque di abbattere prima di tutto il fondamentalismo in tutte le sue forme e di promuovere la vittoria della ragione per lasciare campo libero a forme illuminate di religione.
 

È vero che, in questo caso, il rapporto tra la ragione e la religione è di un’importanza decisiva, che la ricerca di un giusto rapporto è il fulcro dei nostri sforzi in materia di pace. Parafrasando un’affermazione di Hans Küng, direi che nessuna pace può esserci nel mondo senza l’autentica pace tra ragione e fede, perché senza la pace tra la ragione e la religione le sorgenti della morale e del diritto si esauriscono. Per chiarire il senso di questa affermazione vorrei formulare il medesimo pensiero in chiave negativa: esistono le patologie della religione – sono sotto i nostri occhi ed esistono le patologie della ragione anch’esse ben visibili. Entrambe le patologie costituiscono pericoli mortali per la pace e, oserei dire, per l’umanità intera.
 

Guardiamo le cose più da vicino: Dio, o la divinità, possono essere trasformati nell’assolutizzazione di una determinata potenza, di un determinato interesse. Se l’immagine di Dio diventa talmente faziosa da identificare l’assolutezza di Dio con una comunità particolare o con certe sue aree di interesse, ciò distrugge il diritto e la morale: il bene, in questo quadro, è ciò che sta al servizio della mia potenza, e la differenza tra bene e male svanisce.
 

La morale e il diritto diventano di parte. E tutto questo peggiora ulteriormente quando la volontà di impegnarsi per fini particolaristici si carica di tutto il peso del fanatismo religioso, e diventa così totalmente cieca e brutale. Assistiamo a qualcosa del genere nel caso dei terroristi e della loro ideologia del martirio, un’ideologia che per la verità in certi casi particolari può essere semplicemente un’espressione di disperazione di fronte all’ingiustizia del mondo. (…)
 

Il bene in sé, che stava tanto a cuore ancora a Kant, non esiste più. Ed è proprio su queste basi che hanno agito di fatto le dittature ideologiche: in una determinata situazione può darsi che sia bene uccidere degli innocenti, se questo serve alla costruzione del futuro mondo della ragione. In ogni modo la loro dignità assoluta non esiste più.

Di più su questi argomenti: