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Negli Stati Uniti

Il Columbia Daily Spectator racconta le proteste dell’università senza piagnisteo

Giulio Silvano

Negli atenei americani continuano le manifestazione in favore del popolo palestinese e il quotidiano della Columbia University si sta dimostrando un’ottima fonte di informazione su quello che sta accadendo. Ecco i motivi

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Il 29 aprile sarà l’ultimo giorno di lezioni alla Columbia University. Nonostante il caos delle proteste contro la guerra a Gaza, contro le politiche di Netanyahu e contro le eventuali connessioni finanziarie tra l’università e le istituzioni israeliane e filoisraeliane, per molti dei 30mila studenti sono giorni da passare in biblioteca. Si preparano gli esami e ci si organizza per l’estate, per stage e internship e vacanze. Chi a maggio si laurea organizza la cerimonia del diploma. Le proteste sono solo una parte della vita del campus di Manhattan, una parte rumorosa che riceve l’attenzione dei politici di ogni parte, dalle deputate della sinistra radicale come Ilhan Omar, fino allo speaker trumpiano della Camera – la terza carica più importante dello stato – Mike Johnson. Nessuno di Washington vuole perdersi una photo-opportunity. L’occasione è ghiotta per appropriarsi del dibattito, tra attacchi agli attacchi antisemiti (ce ne sono stati parecchi, con tanto di bandiere di Hamas in giro) e critiche a quella che viene definita, dalla sinistra, una militarizzazione del campus, con i poliziotti chiamati a intervenire. Agli studenti ebrei viene consigliato da alcuni rabbini di non passare vicino all’accampamento, altri studenti ebrei invece si uniscono alle proteste. Un gruppo pro Israele ha tenuto una manifestazione, con le bandiere dello stato, davanti alla libreria. Anche i professori si sono divisi, c’è chi dice che la libertà di espressione – anche quella che urla al genocidio e zittisce i sionisti? – sia sacrosanta, e chi invece difende la libertà di accedere alle aule senza intimidazioni, per poter far lezione in pace. Il microcosmo del campus newyorkese è diventato, per via delle visite istituzionali, una finestra sulle varie contraddizioni, e l’ennesima dimostrazione della validità della teoria del ferro di cavallo: sia i MAGA che la sinistra chiedono per  esempio le dimissioni della presidente della Columbia, Minouche Shafik. Da qui, così come era in parte successo nel ’68 col Vietnam, le manifestazioni sono allargate a molte università d’élite, da Yale a Berkeley.
 

Il quotidiano della scuola, il Columbia Daily Spectator, il secondo più vecchio giornale studentesco (dopo Harvard, ma sì sa, Harvard vince sempre), si sta dimostrando un’ottima fonte di informazione su quello che sta accadendo. I suoi reporter, ventenni impegnati negli esami, cercano di coprire le varie prospettive e dare voce alle diverse anime della protesta. Su una redazione di 250 persone, ben 40 sono in giro tra il Morningside Park e il South Lawn a cercare di documentare e far luce sulle dinamiche dentro e intorno all’accampamento di tende da campeggio, tra tamburi e megafoni e lezioni su Zoom. Si cerca di fare fact checking, si cerca soprattutto – sembra essere il principale obiettivo – di fare ordine e di differenziare tra quello che succede dentro il perimetro dell’università e quello che succede fuori. Alcuni dei manifestanti infatti vengono da fuori, così come sono accadute fuori dal campus varie aggressioni antisemite. “Il nostro lavoro giornalistico ha l’obiettivo di evitare delle generalizzazioni che potrebbero essere molto dannose per le varie comunità coinvolte”, dice un editor del giornale. Il Poynter Institute for Media Studies ha voluto sottolineare come gli studenti-reporter dello Spectator siano stati “solidi e responsabili. Le storie hanno un contesto. Gli editoriali e le rubriche sono ben ragionati. La copertura è stata equilibrata”. La direttrice, Isabella Ramírez, è una studentessa di ventitré anni di sociologia. Un giornale che negli ultimi anni aveva rischiato di cascare, vittima della cultura da ZTL-Ivy League in storie che si concentravano solo su razzismi vari, su oggetti museali delle tribù dei nativi da riconsegnare, su safe space e quant’altro, nel momento della vera confusione, si dimostra efficace e moderato, senza nevrastenie da social justice warrior. Anche conservatori e moderati hanno sempre avuto la possibilità di collaborare al giornale, senza che diventasse un altoparlante della cultura da piagnisteo.

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