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25 aprile

Buona Liberazione all’Ucraina, fronte di lotta in tempi tetri

Adriano Sofri

Lo spartiacque fra la ripugnanza per lo stalinismo e chi vi vide solamente un socialismo difettoso

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Poiché la Russia di Putin è nemica dell’umanità, e l’Ucraina che vuole essere libera di sé ne è stata brutalmente aggredita e devastata, il mio augurio del 25 aprile, come di tutti i giorni dal 24 febbraio del 2022, va alla liberazione dell’Ucraina. Viviamo tempi così tetri e avvilenti che, per così dire, non c’è che il problema della scelta. Che cessi la carneficina di Gaza e ne siano puniti i responsabili, tutti i responsabili. Di troppi altri luoghi altrettanto insanguinati e meno vicini e visibili non occorre dire. Ma c’è un denominatore che accomuna le situazioni più diverse, e in questa data conviene di nuovo ricordarlo a chi creduto di sinistra. E’ lo spartiacque originario fra la ripugnanza per lo stalinismo e la sua eredità, e ogni interpretazione che vi vedesse un socialismo pur difettoso, incompiuto o deviato: persuasa, la seconda, che il “socialismo reale” andasse corretto e completato, dunque innanzitutto difeso, di fronte a un sistema capitalistico la cui mascheratura liberale concedeva solo la necessità dell’abbattimento. Per gli uni, il 9 novembre del 1989, il crollo del Muro, è un’altra data fatidica di liberazione, per gli altri, il giorno della perdita e del lutto. Quando sembrava che la fine della Guerra fredda e l’avvento del mondo globale l’avessero messa in soffitta, quella differenza si è ripresa i suoi prepotenti diritti. E’ successo esemplarmente, in quella Europa balcanica fuori dall’Europa, delle guerre post-jugoslave, in cui il retaggio nazionalcomunista serbista ha continuato ad abbagliare gli adepti del comunismo senza libertà – un affare, rispetto alla libertà senza comunismo – e a contrabbandare sotto il nome di pace la complicità con la sopraffazione. Era la prova generale di ciò che sarebbe avvenuto con l’invasione dell’Ucraina, preparata dalla lunga intesa cordiale con la Russia della Cecenia, del sabotaggio della scelta europea di Majdan, della Crimea e della Siria. Non era più la periferia balcanica ma l’Europa centrale, quella dell’Ungheria 1956, e metteva ora in causa l’idea stessa di Europa e la pratica dell’occidente – l’occidente è un’idea solo per chi è oppresso, donne soprattutto, e vi aspira, per chi ci vive è il cimento continuo con la propria smentita. 

Sono fra quelli che trovano incresciosa la richiesta a Giorgia Meloni e alla sua corte di dirsi antifascisti, dal momento che palesemente non lo sono. Sono, alcuni, non solo i più anziani, schiettamente fascisti. Altri accomodati dentro l’anti-antifascismo, categoria vecchia quanto la Repubblica e ripescata come nuova. Quella richiesta, per generosa che sia l’intenzione, è un ovvio sintomo di frustrazione: la portata della sconfitta, la strana disfatta, non della sola “sinistra” ma dell’intero apparato di istituzioni e di senso comune che andò sotto il nome di arco costituzionale, è fin troppo evidente nella maggioranza e nel governo dominato da un ceto di ex fascisti e di un’appendice beatamente razzista. Talmente evidente che si è imbarazzati a doverlo ripetere. Bisogna però misurarsi con qualche enorme contraddizione. La prima, per me, è che senza la posizione assunta da Giorgia Meloni – l’alleata di Vox, di Zemmour (!), di Orbán – un governo italiano avrebbe rinnegato il sostegno all’Ucraina, e avrebbe probabilmente praticato la collaborazione con la Russia di Putin alla quale teneramente inclinano in tanti. Il Pd, si dice, ha retto, e del resto è ancora, nel gioco elettorale, il male minore, per chi non veda nelle elezioni un’occasione al piccolo narcisismo. Ieri il Fatto – un’altra versione della disfatta della sinistra – intervistava Marco Tarquinio. La prima domanda esauriva il problema: “Sulla pace a Kyiv è più vicino ai 5 stelle, sui diritti al centrodestra. Ma ha deciso di correre per il Pd. Perché?” Già: perché? (Niente di personale, s’intende). 

E’ un episodio, di quelli che, dicono i commentatori di calcio, decidono della partita. Mi fermo su un altro episodio: il mio coetaneo Luciano Canfora. Il tribunale in cui la presidente del Consiglio l’ha voluto portare potrà forse tramutarsi in un guaio per lei, se davvero vi sarà ammessa la mole di suoi precedenti che la difesa invoca. Ma non c’è dubbio che averla chiamata “neonazista” (sia pure con quel “nell’animo” che non è un’attenuante) è, se non una “metafora politologica”, come dice Canfora, una battuta demagogica nel calore di una lezione a una scolaresca di liceali. Decisivo è davvero quel contesto per la motivazione di Canfora, che in un tribunale non farebbe, spero, molta strada. L’argomento era la guerra in Ucraina, in corso da un mese e mezzo, e Canfora disse che Meloni, allora fuori dal governo, “essendo neonazista nell’anima, si è subito schierata con i neonazisti ucraini, è diventata una statista molto importante ed è tutta contenta”. Dunque Canfora faceva propria, e nel modo più perentorio, la posizione di Putin e della sua armata, inviata a “denazificare” l’Ucraina. Una pugnalata alla schiena, si sarebbe detto in altri tempi, dell’Ucraina appena sgombrata dall’assedio di Kyiv e alla scoperta delle fosse di Bucha e Irpin. Ma Canfora non è tipo da insinuare, va fiero della propria imperterrita convinzione. Sellerio ha appena ripubblicato una sua seducente “Vita di Lucrezio” (1993), con una introduzione aggiornata in cui si legge: “Se ne rese conto Virgilio, lettore attento di Lucrezio ed epicureo ‘pentito’, e come tutti i pentiti rancoroso verso il proprio passato”. Canfora parla di sé, mai pentito, dunque illeso dal rancore verso il proprio passato. Nel suo passato ci sono precedenti stretti e insistiti della posizione di oggi sull’Ucraina, e in particolare l’Ungheria del 1956. Qualunque fosse l’occasione, i libri su Concetto Marchesi, su Togliatti, e appunto sull’anno dell’Ungheria, Canfora si è fatto un vanto di aver tenuto duro – a differenza dei tanti pentiti pentitissimi, da Napolitano a Ingrao. Di Ingrao ho letto al pubblico l’altro giorno, discutendo dell’ottimo libro di Roscani sul centenario dell’Unità, un brano dall’editoriale dell’ottobre 1956: “Oggi si difende la rivoluzione socialista, alla base di ogni progresso sociale e sviluppo democratico dell’Ucraina. Chi colpisce questa base, lo voglia o non lo voglia, riapre la porta alle forze antagoniste di classe, per una legge che è scritta nella storia. Bisogna scegliere: o per la difesa della rivoluzione socialista o per la controrivoluzione bianca, per la vecchia Ucraina fascista e reazionaria. Quando crepitano le armi dei controrivoluzionari si sta da una parte o dall’altra della barricata. Un terzo campo non c’è”. Naturalmente, per non insistere nell’esperimento spiritista, ho subito chiarito che avevo sostituito il nome di Ucraina a quello di Ungheria. Ingrao non si perdonò più quelle parole, ma l’impentito Canfora le ripete pressoché tal quali: La vecchia Ungheria fascista e reazionaria, La vecchia Ucraina fascista (anzi: nazista) e reazionaria. In nome della durezza della storia, antica o contemporanea, che espelle dal campo di battaglia gli spiriti deboli.

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Non lo dico per lui, che lo sa, ma per eventuali lettrici, ho insieme a un dissenso politico così forte sentimenti amichevoli e solidali per Canfora, ciò che è possibile a pentitucci come me. Quando lui e io eravamo piccoli, per me il nome di Stalin fu odioso “quasi come” quello di Hitler, e il tabù non fece che rafforzarsi durante la mia formazione rivoluzionaria. Martin Amis, in “Koba il terribile. Una risata e i venti milioni” (2002), racconta il suo sbigottimento di fronte alla generazione intellettuale comunista di suo padre che tuttavia riusciva a ridere e scherzare su Stalin. Hitchens lo definì un caso di “stalinismo senza ironia”, ma anche quella era una battuta. Si può scherzare su Stalin in un gulag, meno in un salotto londinese. All’Unità, ricorda Roscani, c’era un ritratto di Stalin fino agli anni suoi e della mozione di Occhetto, ed “esisteva una specie di strano stalinismo un po’ irridente un po’ goliardico”.  

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Ho, se non un dissenso dal mio amico Luigi Manconi, che sarebbe comico, almeno un distinguo. In un articolo per Repubblica di martedì sul caso Scurati-Rai, Manconi ha ricordato che la libertà di espressione delle idee, “anche le più infami”, ha il solo limite dell’istigazione a commettere delitti. Dopo di che, a proposito della querela di Meloni a Canfora, ha scritto: “Di conseguenza, Canfora può definire Meloni ‘neonazista nell’anima’, così come Meloni può definire ‘stalinista’ Canfora. Si tratta di due offese sanguinose e speculari, dal momento che entrambi i regimi si sono resi responsabili di stragi efferate”. Non so se Manconi si sia distratto o si sia concesso una sottile malizia. Il suo paragone non sta in piedi, perché se Meloni definisse ‘stalinista’ Canfora, sarebbe stata preceduta dallo stesso Canfora, che si definisce ‘stalinista’. L’ha appena rifatto, sulla Stampa, con una specie di ironico compiacimento. Dunque non si sognerebbe di denunciare chi lo chiami così, mentre Meloni non si definisce neonazista, nemmeno solo nell’anima, e anzi se ne sente così offesa da adire le vie legali – ciò che probabilmente non farebbe se la si definisse neofascista, anima e corpo. Il paragone di Manconi potrebbe valere per Canfora in tribunale, meglio che le chiamate in correità di Lucrezio e Tocqueville e Freud: sono un buontempone, chiamo neonazista Meloni, chiamo me stalinista. “Ognuno di noi ha un punto di partenza remoto, culturale, storico, biografico. Quindi, io non drammatizzerei come qualcuno fa questa espressione”. E’ tutto uno scherzo. 
Auguri dunque di liberazione all’Ucraina e, la più amata, a Odessa.

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