Documentario da Oscar

"20 giorni a Mariupol" ci rimette di fronte all'orrore e alle domande che abbiamo ignorato

Paola Peduzzi

L'incredulità degli abitanti all'inizio dell'invasione di Vladimir Putin nelle riprese degli ultimi giornalisti che hanno lasciato la città ucraina. I primi carri armati con l’oscena Z, i primi morti, le lacrime, i palazzi ammaccati, le grida dei feriti e dei sopravvissuti, il silenzio innaturale di una città che si è fermata e gli scoppi delle bombe

Ti abitui a tutto ma poi quel tutto non ti esce più dalla testa, dice un medico mentre avvolge in un lenzuolo il corpicino di un neonato, gli appoggia sopra un foglio con la data della morte, lo sistema di fianco agli altri cadaveri, grandi e piccoli, nel corridoio di un ospedale di Mariupol.

Sono passati dieci giorni dall’inizio dell’invasione dell’esercito di Vladimir Putin in Ucraina, il 24 febbraio 2022, chi poteva scappare è andato via, chi tenta ancora di fuggire è in coda nell’unico corridoio lasciato aperto – a singhiozzo, arbitrariamente, con un checkpoint via l’altro – dai russi, tutti gli altri cercano rifugio da qualche parte, increduli: perché ci bombardano, cosa abbiamo fatto? I giornalisti internazionali sono già tutti stati evacuati, ne sono rimasti soltanto tre, Mstyslav Chernov, Evgeni Maloletka e Vasilisa Stepanenko, sono dell’Associated Press, sono gli autori di “20 giorni a Mariupol”, il documentario candidato all’Oscar dopo settecento giorni della guerra russa contro l’Ucraina.

Mariupol muore sotto i loro occhi, gli unici rimasti a testimoniare la brutalità dei russi: questa città nel sud dell’Ucraina è in guerra da otto anni, nel 2014 i russi avevano tentato di conquistarla senza riuscirci, il 24 febbraio sono tornati. Non si può dire che gli abitanti di Mariupol non fossero pronti alla guerra, la loro incredulità è data dalla dimensione di questo nuovo, indefesso attacco. All’inizio i giornalisti dicono a una signora che piange per strada di tornare a casa: non colpiscono i civili, vai nel tuo appartamento. Poco dopo le bombe cadono sulle case, gli ospedali, l’università, le scuole: non c’è più un posto sicuro.

Si vedono i primi carri armati con l’oscena Z disegnata sopra che arrivano in città, si vedono i primi morti, le lacrime dei parenti e dei dottori, le colonne di fumo, i palazzi ammaccati, sventrati, le macerie per strada, zaini, carretti, sempre meno automobili, si sentono le grida dei feriti, le grida dei sopravvissuti, il silenzio innaturale di una città che si è fermata e gli scoppi delle bombe che si avvicinano sempre più. Finisce ogni cosa: l’elettricità, il segnale internet, il cibo, l’acqua, i medicinali, gli anestetici. L’assedio è cominciato, c’è un unico punto della città in cui funziona ancora internet, i giornalisti cercano di andarci ogni giorno, inviano le immagini alla redazione – le uniche che abbiamo visto, comprese quelle del reparto maternità colpito dalle bombe – e si sentono dire: c’è chi vede i vostri filmati e dice che sono falsi, perché i russi dicono che sono falsi: l’orrore di una brutalità indefinibile sfigurato dalla propaganda russa e da chi l’ascolta imperterrito. Gli spazi si restringono giorno dopo giorno, l’ospedale diventa l’unico rifugio, i vivi e i morti e i feriti che chiedono: quando finisce l’inferno? Nasce un bambino, non piange, lo picchiettano sul sedere mentre lo puliscono, silenzio, ma muove la testa, e finalmente il primo vagito, l’unico pianto tollerabile è di “questo piccolo gattino affamato”.

Guardare “20 giorni a Mariupol” a quasi due anni da quando è stato girato è straziante e necessario. Il mondo ha dimenticato la violenza di questa invasione, i morti sono diventati un numero e non più un’ingiustizia, Mariupol è un pezzetto di terra che a questo punto gli “stanchi” sono disposti a lasciare ai russi, il dibattito riguarda gli arsenali (fintamente) vuoti dei paesi occidentali e i costi da sostenere, gli ucraini non sono più il popolo fiero di una resistenza formidabile ma al limite il loro presidente cocciuto. Nel documentario, un medico dice: la guerra è come una radiografia, mette in mostra quel che c’è dentro al corpo, i pensieri, l’indole. Vale anche per noi che la guerra la guardiamo da lontano e che alla domanda degli ucraini: perché Mosca ci attacca, cosa abbiamo fatto?, non abbiamo nemmeno il coraggio di rispondere: niente, non avevate fatto niente, è l’istinto genocidario di Putin che vi vuole morti perché aspiravate a vivere lontani da lui.
 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi