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Arsenale spuntato

Crosetto allarmato: “La nostra Marina ha solo 63 missili”

Simone Canettieri e Luca Gambardella

L’ammissione dopo la reazione Usa nel Mar Rosso. Costi e tempi lunghissimi: le difficoltà della Difesa

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“E pensare che la nostra Marina militare dispone solo di 63 missili”. Qualche giorno fa Guido Crosetto durante una commissione Difesa si è lasciato sfuggire questa numerica riflessione che ha colpito un po’ tutti i presenti. Parole accompagnate da un certo moto di preoccupata rassegnazione. Il ministro stava commentando quanto accaduto nelle scorse settimane nel Mar Rosso, quando il cacciatorpediniere USS Thomas Hudner ha distrutto alcuni droni lanciati dalle aree controllate dai ribelli houthi, nello Yemen. Per l’occasione, la Marina militare degli Stati Uniti ha sganciato un’ottantina di missili. Una potentissima pioggia di fuoco, una dimostrazione di forza. “E noi invece ne abbiamo solo 63, di missili”, è stata la chiosa di Crosetto. Un’affermazione che apre uno spaccato sugli armamenti dell’Italia tra commesse, lunghissimi tempi di consegna e investimenti. Mare, cielo e terra: la situazione non è ottimale. Anzi. Lo sanno bene all’Aeronautica, ma anche all’Esercito, dove il parco carri armati, per fare un esempio, non è proprio tutto arruolabile (solo il 20 per cento dei mezzi è in condizioni ottimali).

 

 

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La situazione per quanto riguarda i missili è preoccupante, confermano al Foglio fonti vicine alla Marina militare italiana. Pesano i costi dell’approvvigionamento di armi dal valore milionario – aggravati dall’aumento dei prezzi delle materie prime – e che rendono sempre meno sostenibili le guerre combattute contro sistemi d’arma che, invece, valgono poche migliaia di euro. Il problema è vero al punto che persino la più forte e moderna marina al mondo, quella americana, ha notato come la guerra nel Mar Rosso contro gli houthi nasconda un problema di sostenibilità economica. Il mese scorso, alcuni funzionari della Difesa americana hanno confessato a “Politico” che la necessità di trovare più alleati possibili nella guerra contro i ribelli dello Yemen risponde anche a ragioni economiche. Se si usa un missile da oltre 2 milioni di dollari per abbattere un drone suicida di fabbricazione iraniana dal valore di qualche migliaio di euro (gli Shahed-136, i più cari, costano appena 20 mila dollari) è difficile sostenere uno sforzo militare prolungato. 

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La Marina italiana finora ha risposto alla chiamata di Washington per assicurare la sicurezza della navigazione nel Mar Rosso inviando la fregata Virginio Fasan, che al momento è impegnata in attività di scorta ai mercantili in transito lungo quel tratto di mare. Proprio logiche economiche potrebbero fare propendere la fregata Virginio Fasan a puntare sull’impiego dei più sostenibili cannoni Oto Melara da 76 mm contro i droni suicidi degli houthi. Certo, la fregata imbarca anche il sistema missilistico Aster 30 e 15, ma ogni missile vale 2 milioni di euro, il che rimanda la discussione ai dubbi sui costi elevati della strategia della deterrenza nel Mar Rosso. 

 

Due giorni fa, il Times ha scritto che gli americani e gli inglesi stanno per annunciare una operazione congiunta per condurre attacchi mirati contro gli houthi, quindi diretti nell’entroterra della Yemen e non più con semplici funzioni difensive. Sebbene la Fasan sia già nell’area delle operazioni difficilmente sarebbe in grado di partecipare all’operazione di attacco perché la nostra Marina militare non si è ancora dotata di un sistema di cosiddetto “deep strike” su base navale. Si tratta di missili di precisione di lunga gittata in grado di colpire bersagli terrestri direttamente dal mare, con un raggio di azione che può arrivare a 1.000 chilometri. Il governo Meloni ha già sollevato la necessità di ammodernare il parco missili della Marina. Nel Documento programmatico 2023-2025 adottato dalla Difesa si mette nero su bianco che “per la componente navale si rende necessaria l’acquisizione di una capacità di ingaggio di precisione a lungo raggio”. Per questo, lo scorso giugno il governo italiano ha siglato una lettera di intenti con quello francese  e con quello britannico aderendo al programma FC/ASW (Future Cruise/Anti-Ship Weapon). Bene, se non fosse che i tempi si preannunciano lunghi. Lo sviluppo non partirà prima del 2028 e si concluderà nel 2034, con “un fabbisogno previsionale complessivo di 150 milioni€ di cui al momento risulta finanziata una quota parte per 10 milioni€ distribuiti in 3 anni”, come spiegato nel Documento programmatico. Sempre che tutto vada per il meglio. Nel frattempo, la Marina militare si sta dotando del Teseo MK-2/E, un’arma anti nave per la quale il governo ha stanziato quasi 400 milioni di euro fino al 2031. Un sistema che dovrebbe prendere il posto dell’attuale MK-2/A, la cui vicissitudine  ha del paradossale. Dopo un aggiornamento tecnologico durato una decina di anni, uno stanziamento di denaro cospicuo e la predisposizione del sistema di lancio sulle nuove fregate alla fine i missili non hanno superato i test di lancio e non sono mai stati installati sulle Classe Bergamini, come appunto la Virginio Fasan. C’è poi il tema della “vita” dei missili, che non è illimitata. Si tratta di una tecnologia “use it or lose it”, usalo o buttalo, perché la batteria e il propellente hanno una scadenza. Motivo per cui i test missilistici con testate di guerra vengono compiuti soprattutto con missili prossimi alla scadenza. Si evitano sprechi, come è giusto che sia, ma la logica dell’andare al risparmio rischia di penalizzare le capacità della nostra Marina.  

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Scenario allarmante se si considerano anche gli altri fronti di guerra che scuotono il mondo. A partire, dal caso dell’Ucraina: il 9 gennaio la Camera voterà la risoluzione sull’ottavo pacchetto di rifornimenti bellici a Kyiv (i magazzini si stanno svuotando, ma non c’è un vaso comunicante con gli equipaggiamenti delle nostre forze armate, in Ucraina vanno armi leggere). In questa occasione, Crosetto informerà anche il Parlamento della decisione del governo di aiutare Zelensky per un alto anno, come stabilito da un decreto  passato in Consiglio dei ministri alla fine dell’anno. Tuttavia l’esempio della nostra Marina mette in evidenza anche la superficialità di un dibattito politico, avviluppato spesso su posizioni di propaganda senza entrare nel merito con una precisa radiografia dell’esistente.

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