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L'analisi

Perché il rischio default americano per la prima volta preoccupa i mercati

Mariarosaria Marchesano

"Ciò che una volta sembrava inimmaginabile ora sembra una vera minaccia", dice il capo economista di Moody’s Analytics. Solo una scossa della finanza può risolvere lo stallo politico sul debito degli Stati Uniti

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Forse ha ragione il capo economista di Moody’s Analytics, Mark Zandi, quando dice che potrebbe essere necessaria “una svendita di azioni, obbligazioni e del valore del dollaro Usa per generare la volontà politica necessaria per costringere i legislatori a venire ai patti”. Perché “è solo quando donatori ed elettori, arrabbiati per la loro ricchezza in via di evaporazione, bussano alle porta dei legislatori che i legislatori agiranno”. Zandi dice questo in un’ampia ricerca che Moody’s ha dedicato alla questione del debito Usa e al rischio di default, che ogni giorno che passa senza un accordo impone almeno di essere preso in considerazione. 

Finora i mercati internazionali hanno snobbato questo rischio percependo la disputa sul debito come molto interna agli Stati Uniti. E poi perché nel corso dei decenni hanno visto lo stesso film molte volte: il dramma politico al Congresso e poi l’intesa tra democratici e repubblicani a ridosso dell’ora X per aumentare il limite (arrivato a 31,4 trilioni di dollari) e consentire alla Casa Bianca di onorare i suoi pagamenti. Ma più impiegano i mercati finanziari a reagire – sostiene in sintesi l’analisi di Zandi – maggiori sono le probabilità che i legislatori non agiscano in tempo, poiché le turbolenze del mercato sono probabilmente ciò che serve per sbloccare la situazione. Non è l’auspicio di uno scossone della borsa americana, che peraltro continua a mantenere la calma, “ma ciò che una volta sembrava inimmaginabile ora sembra una vera minaccia”. Vale a dire l’ipotesi che tra pochi giorni il governo americano resti senza soldi

Neanche i presagi di “catastrofe economica” del segretario al Tesoro, Janet Yellen, hanno sortito effetti sul negoziato in corso tra il presidente Biden e il leader dei democratici alla Camera, Kevin McCarthy. Così, l’ultima spiaggia sembra essere la capacità degli investitori di esercitare una certa pressione. Nel peggiore degli scenari ipotizzato da Moody’s, la conseguenza di un default sarebbe una recessione che costerebbe all’economia americana oltre 7,8 milioni di posti di lavoro spingendo il tasso di disoccupazione all’8 per cento, i prezzi delle azioni scenderebbero di quasi un quinto spazzando via 10 trilioni di ricchezza delle famiglie. E i rendimenti dei titoli di stato, i tassi ipotecari e altri tassi di prestito al consumo e alle imprese aumenterebbero fino a quando il limite del debito non sarà risolto. Si tratta di una prospettiva estrema, ma prevedere lo scenario peggiore fa parte del mestiere di chi fa analisi di mercato. 

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C’è da dire che rispetto a un mese fa, qualcosa sta cambiando nella percezione del rischio che un default si verifichi davvero, come ha spiegato uno dei maggiori fondi d’investimento europei, Columbia Threadneedle, in una video conferenza da Londra con i giornalisti che si è tenuta ieri. Nelle ultime settimane c’è stata una vistosa crescita dei rendimenti dei treasury e anche il costo dei Cds (i credit default swap che per gli investitori rappresentano la copertura assicurativa nel caso di insolvenza del debitore) è aumentato superando quello del 2011, che è stato uno dei momenti più critici della perenne battaglia sul tetto del debito. La platea degli investitori, comunque, non è omogenea e quello che di interessante sta succedendo, come osserva Moneyfarm in una ricerca, è la reazione divergente tra tipi di mercati. Mentre quelli monetario ed obbligazionario hanno cominciato a includere la possibilità che il governo statunitense non sia in grado di ripagare le scadenze di giugno, i mercati azionari procedono per ora imperterriti, senza dare troppo peso alla possibilità di un default. Al momento non c’è neanche un consenso sulla “data di scadenza” della solvibilità a stelle e strisce (Yellen ha parlato dei primi di giugno, ma potrebbe volerci qualche settimana in più). Quello che è certo, osserva Moneyfarm, è la velocità con cui il governo Usa ha esaurito le sue riserve presso la Fed negli ultimi mesi. Dal maggio 2022 il saldo è sceso di 810 miliardi, esaurendo l’eccesso di liquidità che si era creato col Covid. 

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Il livello di per sé non è anomalo rispetto ai dati precedenti alla pandemia, ma in rapporto alla spesa pubblica e all’aumento del debito (da 10 mila miliardi di dollari nel 2008 ai quasi 32 mila attuali con un’incidenza sul pil del 120 per cento), la situazione si presenta più precaria in un contesto globale in cui le politiche fiscali dei governi stanno diventando un tema sempre più sensibile per i mercati, negli Stati Uniti come in Europa, come dimostra quello che è successo nel Regno Unito con il governo di Liz Truss.

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