Il mondo oggi è inadatto ai trattati di pace? La lezione a venticinque anni dall'Accordo del Venerdì Santo

Paola Peduzzi

Quando gli alleati si gridano traditore! e un paio di elementi necessari per far finire le guerre, di fronte a un conflitto completamente diverso in cui non si può applicare lo stesso principio dell'Irlanda del nord

Milano. Quando Bill Clinton decise, nel 1994, di concedere un visto per viaggiare in America a Gerry Adams, leader del Sinn Féin, il premier britannico John Major si sentì tradito e, furibondo, disse ai suoi consiglieri che avrebbe dovuto prendersi del tempo prima di riparlare con il presidente americano, “per essere più calmo”. Ogni parola, ogni reazione era importante, gli errori si pagavano con attentati e assassinii: si stava cercando di trovare una via per la pace tra Irlanda del nord e Irlanda, dopo la violenza dei Troubles (3.500 morti). Dell’ira di Major siamo venuti a conoscenza soltanto nel 2018, quando sono stati resi pubblici i documenti dell’Archivio di Londra, ma già allora quel visto concesso da Washington senza l’accordo di Londra sembrò la fine di tutto. 

 

Oggi che celebriamo i venticinque anni dall’Accordo del Venerdì Santo che pose fine ai Troubles, oggi che è in arrivo Joe Biden a Belfast, a Dublino e nei luoghi degli antenati del presidente americano, oggi che continuiamo a invocare la pace per il più grande conflitto degli ultimi decenni nel cuore dell’Europa, la storia di quel negoziato prende significati nuovi. Peter Baker, che ora lavora al New York Times e che nel 1998 era al seguito di Bill Clinton quando ci fu la firma dell’Accordo, scrive: “I tavoli dei negoziati oggi sono vuoti; gli aerei della shuttle diplomacy non decollano più; i trattati vengono più violati che siglati”. Se la diplomazia non è morta, insomma, di certo non se la passa bene in un mondo polarizzato e frammentato allo stesso tempo, dove non si riesce a trovare un interesse comune su cui convergere. Ma leggendo “Great Hatred, Little Room” di Jonathan Powell, che era chief of staff di Tony Blair e il caponegoziatore britannico per la pace in Irlanda del nord, è chiaro che nemmeno allora  porre fine ai Troubles sembrava una cosa possibile. Powell racconta nove anni di negoziati tra interlocutori  inconciliabili, di proposte finte che piacevano soltanto a una parte (nemmeno al suo completo), di sospetti, tantissimi sospetti che costringevano a enormi passi indietro per riprendere il discorso dai piccoli appigli disseminati su una strada che sembrava impraticabile. Lo splendido libro di Powell mostra che, prima di ogni cosa, per fare la pace bisogna volerla, la pace – una premessa che può sembrare tautologica ma non lo è affatto se applicata, per esempio, alla guerra di Vladimir Putin in Ucraina: il presidente russo parla sempre di condizioni di pace ma non vuole la pace – e che bisogna avere il coraggio dell’immaginazione. Il visto che Clinton concesse ad Adams si sarebbe rivelato un pezzo di coraggio e di immaginazione, anche se allora fu visto come il tradimento assoluto dell’America al suo alleato speciale. Major, quando si calmò, scrisse a Clinton dicendogli che concedere un palcoscenico ad Adams e all’Ira senza chiedere in cambio garanzie su un cessate il fuoco equivaleva a sotterrare tutti gli sforzi fatti fino a quel momento, e smontare l’unico bene inestimabile che c’è in ogni relazione: la fiducia. Poiché Clinton aveva cambiato idea nel giro di pochi giorni (prima era contrario al visto), tutti pensarono che  avesse ceduto a pressioni interne e che, ancora una volta, il dibattito domestico avesse avuto il sopravvento su una questione internazionale di tale importanza. Adams passò 48 ore a New York, si fece intervistare da tutti i media possibili e ogni volta che il suo volto compariva sugli schermi e sulle copertine, a Londra e in buona parte delle Irlande si mormorava: è finito tutto. 

 

Nel 2019, Adams ha detto che quel visto fu per lui la svolta: aprì un dialogo con Washington, per la prima volta accettò di parlare di pace, volendola. Un diplomatico della Casa Bianca di allora ha raccontato che gli incontri con il presidente, in quel 1994 che era anche di rielezione, erano incandescenti, ma vinse la linea voluta da Clinton: se Adams si lascia coinvolgere, avremo fatto un passo avanti; se non lo fa, sveleremo la sua finzione. Dopo venticinque anni, molti riconoscono all’America il merito di aver rischiato e di aver avuto ragione: il più delle volte non lo fanno con un sorriso, ma lo fanno. Ed è forse questa la lezione che si può trarre oggi, di fronte a un conflitto completamente diverso in cui non si può applicare il principio di allora (non si voleva stabilire un vittorioso e uno sconfitto, si voleva la collaborazione pacifica delle parti): fidarsi degli alleati, costruire questa fiducia con lealtà, senza pensare che un istinto nazionalistico possa avere la meglio sulla difesa di un bene comune com’è la democrazia. La politica interna ha un peso, naturalmente, ma non è tutto, non può essere tutto, nemmeno nei casi più estremi. Quando nel 1998 Clinton arrivò in Europa per la firma dell’Accordo del Venerdì Santo, Paula Jones lo aveva già accusato di molestie sessuali, lui aveva già detto la fatidica frase su Monica Lewinsky “mai avuto una relazione sessuale con quella donna”, Linda Tripp aveva già registrato tutte le sue conversazioni con la Lewinsky e le aveva già consegnate a Kenneth Starr.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi