Il silenzio dei pacifisti su Kara-Murza, Gershkovich e gli altri prigionieri di Putin

Luciano Capone

Nessuna mobilitazione per Kara-Murza, Gershkovich e gli altri detenuti politici che lottano pacificamente contro la guerra in Russia. Le energie dei nostri pacifisti sono tutte concentrate contro i nostri governi per fermare l’invio di armi all’Ucraina

Non è chiaro se sia indifferenza o rassegnazione, ma sta di fatto che in Italia nei movimenti pacifisti e per la libertà d’informazione c’è scarsa attenzione per la repressione del regime di Putin. Eppure i democratici russi inviano messaggi allarmanti: “La Russia sta tornando alle pratiche del terrore politico di Stalin. Il terrore contro il dissenso e la sua stessa gente è costato alla Russia centinaia di migliaia di vite nel secolo scorso”, si legge in un appello di giornalisti, attivisti e intellettuali pubblicato sulla Novaya Gazeta Europe, il giornale del premio Nobel per la Pace Dmitrij Muratov che ora opera in esilio dopo la chiusura imposta dal Cremlino. “Questo terrore è iniziato con processi farsa di oppositori politici e dissidenti, e si è concluso con esecuzioni di massa e imprigionamento di comuni cittadini, compresi coloro che hanno accolto con favore i primi processi farsa”, prosegue l’appello sottoscritto per chiedere la liberazione di Vladimir Kara-Murza.

 

Il dissidente russo – ex collaboratore di Boris Nemtsov, l’oppositore liberale di Putin ucciso nel 2015 – è stato arrestato e rischia 25 anni di carcere. La colpa di Kara-Murza è, in sostanza, di essere un pacifista. L’attivista, che in passato è sopravvissuto a due avvelenamenti probabilmente a padella stessa squadra dell’Fsb accusata di aver avvelenato Alexei Navalny, è accusato di “diffusione di informazioni false sull’esercito” e “tradimento”: nel primo caso per essersi opposto all’invasione dell’Ucraina, e questo in Russia è un reato; nel secondo per aver parlato in forum internazionali condannando la guerra e la persecuzione dei dissidenti da parte del regime, e questo è un reato gravissimo. Tanto che se la richiesta dal pubblico ministero verrà accettata, Kara-Murza dovrà scontare una pena superiore a quella inflitta agli esecutori materiali dell’assassinio di Nemtsov.

 

In una situazione analoga si trova il reporter del Wall Street Journal Evan Gershkovich, il primo giornalista americano arrestato in Russia con l’accusa di spionaggio dalla fine della Guerra fredda, che rischia 20 anni di prigione. Il reporter ovviamente respinge l’accusa di aver operato come una “spia” per raccogliere informazioni sull’industria militare russa: stava semplicemente svolgendo il suo lavoro, che è certamente quello di raccogliere informazioni, nello specifico sulla compagnia militare Wagner, ma per informare l’opinione pubblica sulla guerra. Ma anche questo non si può. Perché il giornalismo indipendente e la libertà d’opinione, che nelle nostre democrazie sono diritti, nella Russia di Putin sono crimini.

 

In questo senso le vite parallele di Kara-Murza e Gershkovich, un russo e un americano, fanno parte di un’ondata di repressione del pacifismo molto più ampia: 3.800 persone sono state perseguite per essersi espresse contro la guerra e circa 250 stanno affrontando processi penali. Ma i casi Kara-Murza e Gershkovich sono rivelatori anche di qualcosa che non funziona da noi. Il mondo pacifista italiano ha reagito a questi arresti con freddezza e disinteresse: niente appelli, nessun sit-in davanti all’ambasciata russa, neppure un hashtag. Forse il disinteresse alla sorte di centinaia di cittadini, dissidenti, giornalisti e politici di opposizione che sono detenuti o processati per aver praticato il pacifismo dove il prezzo da pagare è molto elevato per davvero, e non per posa, è dovuto al fatto che dalle nostre parti c’è la percezione che, in fondo, questi dissidenti siano realmente prezzolati dall’Occidente, legittimando indirettamente le argomentazioni di Putin contro i traditori e rafforzando lo stereotipo dell’incompatibilità dei russi con i movimenti democratici e liberale.

 

O forse, più semplicemente, non c’è spazio per impegnarsi a favore dei pacifisti che lottano pacificamente contro Putin in Russia perché le energie dei nostri pacifisti sono tutte concentrate contro i nostri governanti per convincerli a fermare l’invio di armi all’Ucraina, togliendole la capacità di difendersi, per giungere così alla pace. In mezzo a tanto idealismo, è sicuramente un atteggiamento molto realista che riconosce come far cambiare idea a un governo democratico sia molto più semplice che far tornare sui suoi passi una dittatura che invade un paese vicini, massacra la sua popolazione e rapisce i suoi bambini.

 

Probabilmente nessuna mobilitazione sarebbe in grado di aiutare i pacifisti che incoscientemente manifestano a Mosca e di far liberare i prigionieri politici russi, e il fatto che non ci sia alcuna iniziativa in tal senso è sintomatico di quanto gli stessi pacifisti credano poco nell’efficacia dei loro metodi nel condizionare le decisioni del regime di Putin. Ma se il realismo deve prevalere sull’idealismo, bisogna riconoscere che se oltre alla resistenza armata si rinuncia anche a quella nonviolenta, non rimane che la resa. Basta dirlo chiaramente: agli italiani, agli ucraini e anche i russi.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali