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I bambini e Putin 

Il mandato di cattura per Putin visto da una madre a cui i russi hanno rubato due figlie

Cecilia Sala

La questione è se con la sua azione la Corte penale internazionale possa provare non a punire a posteriori, ma innanzitutto a fermare un crimine di guerra che è in corso

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Dopo che il Tribunale dell’Aia ha annunciato il mandato di cattura per Vladimir Putin, in Italia alcuni editorialisti e giuristi si sono preoccupati che questa novità  compromettesse la pace. L’ipotesi del negoziato purtroppo non era sul tavolo neanche un attimo prima che fosse spiccato il mandato, ma c’era un’emergenza: fermare i rapimenti di bambini. La questione è se con la sua azione la Corte possa provare non a punire a posteriori, ma innanzitutto a fermare un crimine di guerra che è in corso. A Mosca, tra le reazioni sprezzanti (“Il provvedimento è carta igienica!”), ce n’è stata una più composta che tradisce come il Cremlino non sia davvero indifferente all’onta internazionale: la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova ha detto che quando ci sarà un negoziato, dovrà comprendere “la caduta delle accuse intentate contro le autorità russe dalle Corti internazionali”. 

Le parole più serie di Zakharova sono state messe in ombra dalle minacce un po’ allucinate dell’ex presidente Medvedev, che invece ha subito proposto di rispondere bombardando la sede del Tribunale, cioè il Palazzo della pace all’Aia, nei Paesi Bassi. Medvedev ha il compito di straparlare ma rientra in un gioco delle parti, l’esperienza recente ci ha aiutato a capire che non sono le sue dichiarazioni quelle a cui prestare più attenzione per provare a leggere la reazione russa a una mossa degli europei o della comunità internazionale contro Putin. 

I bambini e adolescenti ucraini deportati in Russia, secondo l’ultimo dato diffuso da Kyiv due mesi fa, sarebbero 13.899. La Corte penale internazionale dice di aver raccolto sul campo testimonianze per circa seimila casi e prove per più di seicento. A settembre, il Foglio aveva pubblicato un’intervista a una quindicenne ucraina deportata in Russia, Alexandra, che faceva parte di un gruppo di trecento ragazzi ucraini spariti dai loro villaggi nel nord-est del paese il 29 agosto. Lei era finita a Gelendzhik, una città sul mare nel sud della Federazione russa lontana più di mille chilometri da casa sua.  I soldati russi che l’hanno trasportata lì  con dei pullman le avevano detto che si sarebbe trattato di “un lungo campo estivo”. Alexandra aveva capito subito che qualcosa non andava perché – come per altri minori le cui testimonianze sono state raccolte dal tribunale dell’Aia – i soldati  le hanno anche detto che i suoi genitori erano morti sotto i colpi dell’artiglieria ucraina durante la controffensiva nella zona di Kharkiv a settembre. Ma Alexandra era già  orfana di madre e padre prima dell’invasione e viveva sola con la nonna da quando era bambina.

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Una madre di Nechvolodivka, le cui due figlie di 13 e 16 anni erano sparite lo stesso 29 agosto, dice al Foglio che “dopo quattro settimane le ragazze sono tornate a casa sane e salve grazie a uno scambio in cui il governo ha restituito a Mosca dei prigionieri di guerra, non so quanti”, e chiede di restare anonima perché non è sicura che alle autorità di Kyiv vada bene che si parli con i giornalisti di quello scambio. Lei dice  che le sue figlie “sono state fortunate”, perché sono state rapite dai russi poco prima della liberazione del villaggio e quando vivevano da mesi isolate, senza connessione internet e senza aver potuto conoscere gli orrori russi a Bucha e a Mariupol. “Altrimenti, da sole con i soldati russi sarebbero state terrorizzate e avrebbero avuto incubi ogni notte”. Si augura che questi scambi di prigionieri anomali possano continuare finché anche l’ultimo bambino ucraino sarà tornato a casa dai suoi parenti: “A questo punto, non conviene anche ai russi far sparire le tracce di un loro crimine?”. Questo a prescindere dalla scarsa praticabilità del mandato di cattura o dalla fattibilità del processo.
 

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