Il reportage

A Leopoli i rifugiati aspettano la vittoria come pesci in un acquario

Micol Flammini

Le lezioni online, la vita in ciabatte in un prefabbricato e un pensiero: il ritorno. Il costo dell’integrazione dei rifugiati nel quartiere Sykhiv

Leopoli, dalla nostra inviata. La vita in un prefabbricato bianco era pensata per durare non più di sei mesi. Il tempo giusto per guardarsi intorno, prendere decisioni, riorganizzarsi. Invece è diventata attesa, lunga, improduttiva, monotona. Quando la Polonia aveva deciso di donare a Leopoli delle casette per i rifugiati, lo aveva fatto come soluzione transitoria, per offrire alla città occidentale dell’Ucraina, punto di arrivo dei rifugiati della parte orientale del paese, una sistemazione in più per chi fuggiva da dove la guerra russa distrugge con più violenza. Il quartiere Sykhiv è periferico, raggiungibile dal centro in tram e tra i palazzoni degli anni Ottanta spunta un quadrato bianco, preceduto da due bandiere che si fondono in un abbraccio: ucraina e polacca. Il progetto è di Varsavia, ma il mantenimento della struttura prevede uno sforzo economico congiunto con  Kyiv e con l’amministrazione cittadina di Leopoli. Tra i prefabbricati ci sono panchine, fili per stendere i panni, chi si aggira tra una struttura e l’altra procede lentamente, con il ritmo di un pesce in un acquario. Proprio come un pesce, chi arriva all’estremità dell’isolato sembra percepire la presenza di un vetro, non va oltre, si volta, e torna indietro, proseguendo la passeggiata racchiusa tra gli estremi della cittadella per rifugiati: una bolla. Dentro ogni prefabbricato ci sono bagni per uomini e donne, una cucina, ogni camera ospita circa quattro persone e Viktor, il dirigente della struttura, spiega che è comune mettere membri di famiglie diverse nella stessa stanza: “Due madri che arrivano con un figlio ciascuna non possiamo permetterci di accomodarle in stanze separate”, dice al Foglio.

 

 

Viktor è di Odessa, anche lui è arrivato a Leopoli dopo il 24 febbraio del 2022 e per la struttura ha grandi progetti: “Vorrei che le sale da gioco per bambini fossero organizzate per età, in modo che ognuno abbia le sue possibilità. Vorrei che in quella per i piccoli ci fosse il pavimento morbido, in quella dei più grandi anche i videogiochi. Poi i libri, in qualche modo bisogna che questo posto si sviluppi”. Il progetto iniziale prevedeva che le famiglie potessero rimanere sei mesi, invece chi arriva tende a rimanere a oltranza, intrappolato tra le luci fredde della struttura, gli incontri nelle cucine comuni che si svolgono pressoché in silenzio. “La struttura offre due pasti, per il resto le famiglie devono provvedere per conto proprio. Lamentele non ce ne sono, ma mi chiedo, sinceramente, cosa li spinga a rimanere qui così a lungo, a non cercare una sistemazione più stabile”. Gli adulti non lavorano e i bambini proseguono le loro lezioni da remoto. Fisicamente sono a Leopoli, mentalmente ancora a Lysychansk, Zaporizhzhia, Kherson,  Melitopol, Donetsk. Lo stesso i loro genitori: “In pochi cercano lavoro, la difficoltà a integrarsi è una questione preoccupante”.

 

 

La vita in ciabatte e vestaglia che si trascorre in questi corridoi scorre lenta e invecchia veloce. Dalla cucina al bagno non si cammina ma si ciondola, neppure i bambini corrono. I ragazzi sono immersi nei telefoni. Sembra che queste persone si siano già dette tutto quello che avevano da dirsi: fughe e perdite. Sono estranei senza troppa curiosità gli uni per gli altri. Non vogliono buttarsi nella loro nuova città, Leopoli, temendo che iniziare una vita qui vorrebbe dire rinunciare alla vecchia, preferiscono questo purgatorio dall’odore di chiuso, talmente opprimente da non potercisi abituare. Sono tutti convinti che così rimarranno legati alle loro esistenze di prima, che ormai non esistono più, perché la guerra ha stravolto tutto. Vivono l’attesa come un tempo bloccato o una speranza, tenacemente attaccati al loro sud-est che soffre più del resto del paese. “Sono convinti che torneranno presto, è trascorso un anno, ma continuano a esserne convinti. Quando chiedo: perché non mandate i vostri figli a scuola? Perché non cercate un appartamento? Un lavoro? Rispondono: tanto torneremo a casa”, spiega Viktor. Rimanendo sospesi credono di ricordare di più da dove vengono, il luogo del rifugio è diventato un’altra dimensione: un acquario dalle pareti bianche.

 

 

In cucina, una signora imburra il pane, siede da sola, si presenta come Anna Nikolaevna, viene da Mariupol. “Sono arrivata qui con mia figlia, fosse stato per me sarei rimasta ad aspettare l’arrivo dei nostri”, racconta. “Dopo aver vissuto intere settimane rinchiusa in una cantina, questo posto mi sembra un lusso, perché dovrei cercare casa? A Mariupol eravamo in venti rintanati sotto terra, forse anche di più. Ce ne stavamo rinchiusi mentre sentivamo le bombe che cadevano da tutte le parti. Prima ha cominciato a mancare il cibo, poi l’acqua, poi i medicinali. Qui c’è tutto, non mi manca nulla. Un lusso”, ripete. Racconta che i russi promettevano di portare loro del cibo, poi si presentavano con una pagnotta di pane durissimo che sarebbe dovuta bastare per venti persone: “Allora ne davamo di più agli uomini e meno alle donne, in qualche modo dovevamo arrangiarci. Ho capito quanto fossimo disperati  quando abbiamo iniziato a ridere a crepapelle per il racconto di uno dei nostri vicini: era seduto sul water durante un bombardamento. Insomma, ha iniziato a sentire i missili sempre più vicini, ma aveva bisogno di rimanere lì. Un missile è andato proprio nella sua direzione ed è rimasto incastrato nel soffitto sopra al water, così, quasi penzolando, e lui, mezzo nudo, si è messo a scappare. Dopo aver riso a non finire, siamo scoppiati a piangere: era stato fortunato, ma che vita è?”. Anna è convinta che la vittoria arriverà presto, lì dentro ne sono convinti tutti, non cerca lavoro, aspetta. Imburra il pane e si arrabbia: “Poi questa questione della lingua, il russo è la mia lingua insieme all’ucraino, perché dovrei abbandonarlo per colpa degli occupanti? Mi hanno bruciato la casa, probabilmente il gatto e vogliono sporcarmi pure la lingua. Piuttosto la smettesse lui di parlarla: quel muskali”, Anna usa un termine che si sente molto in questo quartiere in miniatura di casette bianche e viene usato in modo dispregiativo per indicare i “russacci”, e Vladimir Putin nello specifico.

 

  

I rifugiati non vogliono un’altra vita, vogliono quella di prima e forse arriverà il momento che per Leopoli si presenterà un problema: potrebbe volerci ancora tempo prima della vittoria, come convincere questi cittadini a ricominciare a vivere, a lavorare, a fare, prima che diventino un peso.  Intanto tra i prefabbricati bianchi c’è silenzio, si gioca a dama, si disegnano bandiere ucraine, sempre attenti a non valicare il confine, oltre il quale sembra iniziare la vita vera, quella di Leopoli. I rifugiati rimangono sospesi, nuotano tra i ricordi, contano i giorni con un solo pensiero: tornare a casa.  

 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.