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dopo il terremoto in siria

Le mani di Assad sugli aiuti umanitari

Luca Gambardella

Per il regime, quello umanitario è un business con cui arricchirsi e un’arma di ricatto per avere legittimazione. Ora chiede di rimuovere le sanzioni, ma è solo un trucco. Ecco gli uomini e le società che fanno il suo gioco sporco

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Lo scorso 28 gennaio, il capo dell’organizzazione umanitaria della Mezzaluna rossa siriana (Sarc), Khaled Hboubati, era stato ricevuto in Vaticano per un’udienza con Papa Francesco. Una foto di cortesia li ritraeva mentre il Pontefice scambiava dei doni con Hboubati, oggi diventato uno dei personaggi chiave nella complessa macchina degli aiuti umanitari dopo il terremoto di domenica notte, che ha ucciso oltre 11 mila persone fra Turchia e Siria. Con un dettaglio: Hboubati è un uomo di Bashar el Assad. Dopo avere investito nel settore dei night club e dei casinò prima della guerra, è diventato presidente di una squadra di calcio legata al regime baathista, l’al Wahda. E’ considerato molto vicino  alla moglie di Assad, Asma, al punto che nel 2016 il presidente siriano lo ha messo alla guida della Sarc con l’obiettivo di avere il pieno controllo della distribuzione degli aiuti umanitari nel paese. 

   

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Il regime di Damasco è sottoposto a sanzioni internazionali e durante la guerra ha tenuto insieme la propria economia speculando in modo illecito su due settori in particolare. Il primo è quello del captagon, una droga sintetica che il regime produce ed esporta in tutto il mondo, con un giro di affari stimato nel 2021 in quasi 60 miliardi di dollari, più di 20 volte il pil nazionale. Il secondo settore è quello degli aiuti umanitari, che Assad e gli uomini del suo entourage pilotano per punire gli oppositori, per premiare chi si schiera dalla sua parte o semplicemente per arricchirsi. Tra il 2012 e il 2018, nelle aree di Daraa e Quneitra l’attività delle ong indipendenti fu azzerata dal regime una volta ripreso il controllo del sud. La consegna dei beni di prima necessità fu così delegata interamente alla Sarc. Secondo le testimonianze di alcuni operatori della Mezzaluna rossa siriana e raccolte dal Syria Justice and Accountability Centre, gli aiuti stanziati dal World Food Programme venivano distribuiti esclusivamente a chi non aveva tradito il regime solidarizzando con l’opposizione.

 

Alla fine del 2022 due organizzazioni non governative, il Syrian Legal Development Program e l’Observatory of Political and Economic Networks, hanno pubblicato uno studio  che per la prima volta esaminava i bilanci di decine e decine di imprese private vicine al regime. La loro analisi ha dimostrato come tra il 2019 e il 2020 queste si siano arricchite trattenendo buona parte del denaro inviato  dalle organizzazioni internazionali per la ricostruzione del paese. Secondo i dati raccolti, solo in quei due anni circa il 23 per cento dei fondi arrivati attraverso le Nazioni Unite e le sue agenzie (in particolare il World Food Programme) e pari a circa 68 milioni di dollari è finito nelle casse di società vicine ad Assad, riconducibili a personalità sanzionate da Stati Uniti, Unione europea e Regno Unito per violazioni dei diritti umani. Fra queste c’è per esempio la Desert Falcon LLC controllata da Fadi Saqr, comandante delle Forze di difesa nazionale siriane, sanzionate dagli Stati Uniti nel 2020. L’Onu ha tenuto segreti i nominativi di molte di queste società a cui aveva garantito la consegna di beni di prima necessità per un valore di 75 milioni di dollari, circa il 20 per cento dei contratti conclusi in Siria. Il Palazzo di vetro si è difeso in modo maldestro e ha parlato di “generalizzazioni” che mettono in pericolo le sue attività in Siria. La morale è che ogni attività umanitaria condotta dalla comunità internazionale necessita del placet di Assad, senza farsi troppe domande su dove finisca parte dei soldi.

  

  

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Se il regime baathista è rimasto in piedi fino a oggi è perché ha saputo insinuarsi in ogni spiraglio della società civile, in ogni settore economico, militare e dei servizi segreti ma anche in altri ambiti più insospettabili. Fra questi c’è quello degli aiuti umanitari, che Assad brandisce come un’arma di ricatto soprattutto ora che il paese è tornato sotto l’attenzione internazionale per il disastro provocato dal terremoto. Lunedì scorso, il portavoce del dipartimento di stato americano, Ned Price, ha detto che Washington intende mandare aiuti in Siria, ma senza farli passare per Damasco. Assad invece vuole che ogni singolo dollaro della comunità internazionale passi direttamente per le sue mani, sfruttando le enormi difficoltà che si stanno riscontrando in questi giorni nel fare passare gli aiuti da nord, attraverso la frontiera con la Turchia. Non è un dettaglio: per lui gestire gli aiuti, decidere dove inviarli e trattenerne una parte per le comunità che lo hanno sempre sostenuto – Latakia, Hama, Tartus in primis – significa dire al mondo intero che è lui l’unica autorità sovrana nel paese, persino in quelle aree contese come quelle del nord-ovest, controllate da milizie d’opposizione e ora epicentro del disastro umanitario.

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Uomini come Hboubati agiscono e parlano a nome di Assad. Martedì, il direttore della Mezzaluna rossa siriana ha indetto una conferenza stampa e ha chiesto la rimozione delle sanzioni internazionali contro il regime, perché queste sarebbero “un enorme ostacolo” per prestare soccorso a chi è intrappolato nel fango e nelle macerie. Solo che le cose non stanno come dice Hboubati. Le sanzioni internazionali contro il regime non incidono sull’afflusso degli aiuti umanitari, afflusso che d’altra parte è andato avanti per tutti questi anni nonostante le misure restrittive imposte ad Assad e al suo entourage. Il grosso dell’assistenza umanitaria diretta in Siria, circa il 90 per cento, è finanziato da Stati Uniti, Canada e Unione europea, che sono le stesse grandi entità che in questi anni hanno imposto sanzioni contro Assad. Inoltre, il 20 dicembre dello scorso anno il dipartimento del Tesoro americano ha approvato una serie di eccezioni proprio per permettere che il finanziamento di progetti umanitari a favore della popolazione non si fermasse e non rimanesse ostaggio di misure punitive contro il regime. Questo non significa che Washington o l’Onu non siano al corrente delle “truffe” con cui l’entourage di Assad incassa parte di questi finanziamenti. Uno studio di due anni fa pubblicato da un gruppo di think tank e società di consulenza (il Center for Strategic and International Studies, l’Operations & Policy Center e il  Center for Operational Analysis and Research) aveva calcolato che nonostante fosse in cima alla lista delle entità sanzionate, la Banca centrale siriana aveva sottratto circa 60 milioni di dollari dai contratti firmati fra enti privati in Siria e le Nazioni Unite. Mediamente, significa che per ogni dollaro speso in assistenza umanitaria, il regime trattiene circa 51 centesimi. Una tassa diretta, con cui Assad si è arricchito per anni. 

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Intanto, ieri l’Ue ha attivato il Centro per il coordinamento delle risposte di emergenza, stanziando 3,5 milioni di euro “a beneficio delle autorità siriane”. Dalla prima scossa di terremoto a oggi, nel nord-ovest del paese non è arrivata ancora nemmeno una cassa di aiuti umanitari con lo stemma delle Nazioni Unite. Le vie d’accesso dalla Turchia sono ancora inagibili per i danni causati dal terremoto e due dei tre valichi che potrebbero essere usati – quelli di Bab al Salameh e Jarablus – sono chiusi per il veto imposto dalla Russia in seno al Consiglio di sicurezza. Invece a sud, a Damasco, l’Onu è riuscita a fare arrivare i primi aiuti. Nei magazzini dell’aeroporto internazionale di Damasco, le sue casse di legno sono stipate – fra le altre – al fianco di quelle inviate dal principale alleato di Assad, Vladimir Putin.

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