proteste in Iran

Teheran senza veli. Successi, paure e futuro secondo due manifestanti iraniani

Bazar e stazioni: tutte senza velo. "Anche gli uomini ti vedono senza hijab e ti salutano con il fist bump". Una vittoria fragile, però potente: "Come fai a tornare indietro da qui?"

Cecilia Sala

Da Teheran due ragazzi ci raccontano le sigarette spente sulla faccia in caserma, le maschere da sci dei boia, i capelli liberi e il prossimo appuntamento immancabile

“Per trovare una donna giovane che indossi il velo da queste parti devi proprio andare a cercarla. Anche gli uomini, per strada, ti vedono senza hijab e ti fanno il fist bump”, la forma di saluto in cui ci si dà il pugno inventata dai rapper e dagli sportivi che vale come: bravo, bravo anche tu. Forouzan risponde in videochiamata da un parco pubblico del quartiere Chitgar nell’ovest di Teheran, ha 23 anni e studia Elettronica all’università. Fa parte del movimento di protesta fin dal primo giorno. Lei il velo non lo ha mai indossato: i capelli li porta corti e mette vestiti unisex, sembrare un maschio era stata una scelta pratica per evitare problemi con la polizia religiosa per strada. Ma la polizia religiosa è sparita da metà settembre “e la protesta ha dato forza alle altre, a Teheran sono davvero tante quelle che non seguono più le regole e vanno in giro come vogliono”. Nel posto da cui chiama c’è una pista da skate in mezzo a un frutteto piena di ragazze. I video che mostrano parchi, bazar, stazioni e centri commerciali della capitale con persone che vanno al lavoro o fanno la spesa, dove le donne che indossano il velo sono una minoranza o non compaiono sono stupefacenti e impensabili per chiunque abbia in mente il colpo d’occhio a Teheran fino a quattro mesi fa. “E’ l’unica cosa bella da guardare in mezzo alla cupezza delle sparizioni, delle forche”. Una vittoria fragile, però potente: “Come fai a tornare indietro da qui?”. Non sono i manifestanti, sono decine di migliaia di persone che non avrebbero il coraggio di scontrarsi con dei bassiji armati ma quello di vestirsi come vogliono l’hanno trovato. La giornalista e scrittrice britannico-iraniana Ramita Navai – che ha scritto forse il più bel libro in inglese su Teheran, City of lies – lo chiama “il punto di non ritorno”. Forouzan vede quello che il movimento di cui fa parte è riuscito a fare, intanto ripete che finché non cambia il regime – che lei chiama “i fascisti” – ogni conquista, di cui pure si vanta, è incerta e in pericolo. “Stiamo progettando una cosa per il giorno della festa nazionale (l’11 febbraio, la Giornata della vittoria per gli ayatollah), per mettere in chiaro cosa contestiamo: tutta la Repubblica islamica”. 

Un mese fa c’è stato l’annuncio dell’abolizione della polizia religiosa che solo poche settimane prima delle proteste il presidente Ebrahim Raisi voleva potenziare. Sabato la Guida suprema Ali Khamenei ha ripetuto che una donna che non rispetta alla lettera le regole sull’hijab “non è una cattiva donna”. 

Adesso internet funziona, ma come vi organizzate durante i blocchi? “Non c’è un bagno pubblico di Teheran – dai ristoranti agli uffici postali, dalle stazioni alle università – le cui pareti non siano colonizzate da noi. Se vuoi manifestare, per sapere dove e quando ti basta entrare in un qualsiasi bagno della città”. Tra gli adesivi della protesta e i volantini con gli appuntamenti, ci sono i nomi dei gruppi Telegram da seguire, le istruzioni scritte con il pennarello su come evitare gli arresti, schermare le comunicazioni in chat e curare le ferite. 


Forouzan non è mai stata arrestata, la raggiunge al parco un suo amico, Assim, lei stacca lo sguardo dalla videocamera e, girandosi: “Tu invece hai fatto una cosa stupida”. Assim ha fatto l’errore di allontanarsi per un attimo dalla massa del corteo, nel buio due ragazzi sono scesi dalle biciclette, un bassij adolescente con una maschera in faccia gli ha urlato. Assim ha iniziato a correre. Hanno sparato nella sua direzione. Quando si è fermato lo hanno strattonato per il cappuccio della felpa, è caduto di spalle, lo hanno caricato di peso su un minivan blu scuro. “In caserma spegnevano le sigarette in faccia a un mio compagno di cella. Ogni volta che rientrava una guardia si ricominciava da capo: era come se ogni bassij ci tenesse a dare la propria razione di botte personale. A firmarsi coi nostri lividi. Le caserme sono il posto peggiore, la maggior parte degli stupri e delle torture avviene lì e c’è gente che confessa proprio per essere trasferita in prigione. La galera sembra quasi un lusso dopo, quando ci siamo arrivati persino la guardia carceraria era inorridita da come ci avevano conciati. In caserma devi fare in modo di restarci il meno possibile”. Il lavoro sporco lo fanno i bassiji che sono “tutti giovanissimi, molto spesso neanche maggiorenni”: da contrapporre ai giovanissimi manifestanti che hanno dai 15 anni a non molti più di venti. Sono “i bassiji della tornata ‘lavaggio del cervello’”: quegli adolescenti o ventenni reclutati nei collettivi rivoluzionari islamici dei licei e delle università. La generazione che non ha combattuto da nessuna parte, ma è stata arruolata dopo l’Onda verde nel 2009 quando la missione era diventata – letteralmente – la “vaccinazione” culturale  dei propri coetanei. Guadagnano circa un quarto di un vero pasdaran, neanche trecento dollari al mese contro i quasi mille dei sepah, quelli con le uniformi mimetiche chiare nate per le trincee nel deserto di cui se ne sono visti pochi per le strade negli ultimi quattro mesi. “I bassiji indossano le maschere perché sì, noi abbiamo paura di loro, ma anche loro hanno paura di noi”: una pratica in voga tra i manifestanti è il doxxing. Chi riesce a scattare una foto di un bassij la pubblica sui social o nei gruppi Telegram, chi sa aggiunge dettagli nei commenti, l’informazione più preziosa è la via in cui abita l’oggetto del ritratto – per questo gli esecutori materiali della repressione si coprono il volto almeno fino a quando, sui van blu scuro, non sequestrano i telefoni.


Domenica c’è stato un sit-in serale che chiedeva giustizia per il volo 752, quello della compagnia aerea ucraina decollato da Teheran l’8 gennaio 2020 in cui sono morti 176 passeggeri: era stato abbattuto dai missili che l’aeronautica iraniana sparava contro le basi americane in Iraq dopo l’assassinio del generale Qassem Suleimani, ma quelle bombe hanno ammazzato solo cittadini iraniani e decine di turisti stranieri – a pagare finora è stato  un giovane soldato scaricato dai suoi comandanti. Sabato c’è stato un altro sit-in a Karaj – trenta chilometri a nord-ovest di Teheran – per chiedere la liberazione dei compagni di Mohammad Mehdi Karami e Seyyed Mohammad Hosseini, 22 e 26 anni, che erano stati giustiziati quella mattina con l’accusa di aver ucciso un bassij. 

“La settimana scorsa e quella precedente non ci sono state proteste in strada a Teheran”, dicono Forouzan e Assim. Ci sono gesti simbolici organizzati per contarsi e continuare a farsi sentire: “Per esempio per tre giorni nessuno utilizza servizi bancari e paghiamo solo in contanti”. Oppure con scioperi e ammutinamenti di altri settori specifici, a rotazione. C’entrano le esecuzioni? “Dopo cento giorni le persone hanno bisogno di tornare alla vita, hanno impegni che non possono più rimandare e hanno bisogno di soldi, di prendere uno stipendio. Ma le esecuzioni sono state un trauma. Non si può dire che sia un metodo che non funzioni  affatto, che nessuno si sia fatto spaventare. E’ proprio per questo che le impiccagioni continueranno”. Forouzan e Assim frequentavano i ritrovi della protesta nello stesso quadrante della città di Mohsen Shekari, il primo manifestante giustiziato. Aveva 23 anni, lavorava in una caffetteria e scriveva produzioni e brani hip-hop. Quando è stato impiccato Shekari i gruppi Telegram erano pieni di messaggi come questo: “Non è possibile, non fatevi ingannare. E’ solo un modo per spaventarci e costringerci a fermarci. Nessuno conosceva questo ragazzo, non credete alla propaganda”. E poi: “Se qualcuno invece lo conosceva, per favore, si faccia avanti”. Sono arrivate decine di messaggi degli amici di Shekari. 

Alcuni manifestanti pensavano che questo momento non sarebbe potuto arrivare: che la brutalità di piazza e in caserma sono una cosa, le esecuzioni capitali sono un’altra. Le prime si può tentare di mistificarle con la propaganda (come per le proteste a Teheran nel 2019 e a Isfahan nel 2021), le seconde sono un’ostentazione di crudeltà. Che siano state non più nascoste tra le mura di un carcere, ma eseguite in una piazza pubblica come a Mashhad, che ci siano i video con i boia nascosti dietro passamontagna e maschere da sci e i giovani legati e poi impiccati, diffusi dall’agenzia ufficiale della magistratura del clero Mizan, sono un orrore riscoperto per terrorizzare. “Shekari lo conoscevamo di vista, abbiamo marciato insieme nelle stesse strade”, dice Forouzan. Assim la interrompe: “A lui è capitato un mostro soprannominato ‘lo psicopatico’. Sui giudici siamo degli esperti, sappiamo tutto di loro”. Rischiare l’arresto in un punto o in un altro, valicare il confine di una giurisdizione, può cambiarti la vita: “Io sono stato fortunato, ma con la condizionale, se mi faccio prendere di nuovo poi mi tengono dentro per sei anni”. Forse nel tuo caso preferiranno un altro tipo di punizione, gli servi. “Lavorare per il governo? Piuttosto che passare il mio tempo a buttare missili su giganteschi modellini di siti israeliani, scappo in qualsiasi modo”.

Ad Assim manca poco per laurearsi in Ingegneria aerospaziale, gli studenti delle facoltà scientifiche di Teheran hanno partecipato in massa alle proteste ma i pasdaran hanno un occhio di riguardo nei confronti di quelli con i voti più alti che monitorano per poi inserirli nei programmi della Difesa, in particolare quelli sui missili balistici. Assim è un appassionato del settore privato spaziale e mentre parliamo arriva una comunicazione sibillina: Eisa Zarepour, il ministro delle Telecomunicazioni della Repubblica islamica, ha confermato che gli apparecchi satellitari di Starlink – quelli della compagnia SpaceX di Elon Musk – sono attivi in Iran. Zarepour lo dice con un tono affatto preoccupato, “queste attrezzature sono benvenute purché nel loro funzionamento rispettino le nostre leggi”, sono quasi mille dispositivi: in teoria dovrebbero servire ai manifestanti per scavalcare la repressione digitale. (Anche SpaceX ha fatto un comunicato molto scarno per dire che la consegna è avvenuta). 

Cosa dovrebbe fare l’occidente? “E’ un tema di cui abbiamo discusso a volte. Non c’è una linea univoca: io sono disgustato all’idea che un europeo stringa la mano a qualcuno del regime a Vienna o in Giordania, che lo legittimi”, dice Forouzan. Assim prosegue il ragionamento: “Ma mi fa rabbia anche chi, da fuori, si intesta la protesta senza rischiare niente. Quelli che stanno fuori – monarchici e comunisti – politicamente sono rimasti a un’altra epoca. Poi qualcuno si propone come nostro portavoce senza consultarci per dire che il primo punto della lista delle nostre domande sono più sanzioni all’Iran. Non conosco un manifestante iraniano che viva qui che direbbe che quello è il primo punto della protesta. Viviamo sotto sanzioni da anni e le famiglie del regime non hanno perso le loro ville lussuose. Vorrei esistesse un modo semplice per isolare i vertici senza isolare il paese, non viviamo fuori dal mondo e sappiamo che finire isolati come la Corea del nord può essere una trappola, e non è una garanzia di libertà”. 


Nomi e luoghi sono stati modificati per proteggere gli intervistati.
 

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