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il racconto

Trump ha rotto tutto

Giulio Silvano

A due anni dall’assalto al Campidoglio i danni provocati dal trumpismo nella politica americana sono ancora tutti lì, basta guardare il Congresso. Il Partito repubblicano è ostaggio del bad guy e cerca il nuovo leader della post-verità

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Make America great again” non l’hanno inventato i trumpiani, e nemmeno Steve Bannon. Lo slogan chiave della campagna elettorale del 2016, che ha portato l’imprenditore Donald J. Trump alla Casa Bianca, ha origini negli anni Quaranta, ed è stato usato nel tempo da politici conservatori come Barry Goldwater, che perse contro Lyndon B. Johnson, e come Ronald Reagan che invece vinse nel 1980 contro Jimmy Carter. Ma anche da liberal come Bill Clinton, nella campagna del ’92, dove il partito democratico riuscì a riprendere la guida del paese dopo molti anni. E’ uno slogan che funziona, perché ogni persona ha la sua idea di cosa voglia dire “grande, grandioso”, e che fa sognare un’età dell’oro americana idealizzando un generico e impreciso passato. Eppure, o forse proprio per la sua genericità, l’idea di rendere di nuovo grandiosa l’America, come ha funzionato per Reagan e per Clinton, ha funzionato nel 2016 anche per Trump, finendo sui cappellini rossi diventati un simbolo di una lunga e agitata stagione politica. Una stagione che non è finita, quella di Trump, ma non è finito il trumpismo.  I danni fatti da Trump a livello sia strutturale e culturale sia a livello di politiche attive sono diversi. A livello strutturale si è creato un precedente, cioè la possibilità che il presidente degli Stati Uniti possa comportarsi come un bambino capriccioso o come un despota, o anche come un cittadino poco propenso a mostrare limpidezza sui propri trascorsi fiscali. L’attacco del 6 gennaio di due anni fa, e il mancato riconoscimento della legittimità dell’elezione di Joe Biden, sono l’effetto di questa cultura politica. La transizione pacifica del potere è il fulcro della democrazia. Non appena viene a mancare il riconoscimento di legittimità dell’avversario, trema tutto il sistema elettorale, il voto perde la sua sacralità. Le elezioni diventano un gioco sullo screditamento non tanto delle idee dell’altro partito, ma del candidato e della sua autorizzazione a ricoprire un ruolo di potere. “Biden ha rubato le elezioni” è un credo, la cosiddetta “Big Lie” spinta da Trump e dai suoi supporter, che ancora convince oltre il 30 per cento degli americani. 

 

L’altro elemento di politica culturale sdoganata dal trumpismo è stata la morbidezza, se non in molti casi l’esaltazione e accettazione, dell’estremismo. Posizioni estreme, a lungo lontano dalla politica mainstream, sono tornate nell’arena, come antisemitismo e suprematismo bianco, oltre a cospirazioni sui media e i poteri forti, di cui QAnon è solo la punta. La lista di persone fino a quel momento tenute oltre il confine della rispettabilità politica, come l’ex gran mago del Ku Klux Klan David Duke, sono ritornate come voci nel dibattito pubblico. Una folla che combatte i poliziotti ed entra, con foga e violenza, dentro il Campidoglio con l’intento di impiccare il vicepresidente e attaccare la speaker Nancy Pelosi, e di trovare i documenti che provino una cospirazione ai danni del perdente, è solamente il frutto di anni di accondiscendenza all’estremismo dell’Alt-Right. Ed è impossibile, in breve tempo, riportare ordine. A livello delle politiche attive i danni di Trump si sono visti soprattutto nell’economia, nei diritti civili e nella politica estera. Trump in quattro anni ha stretto buoni rapporti con i dittatori, ha cercato di smantellare il sistema sanitario messo su dal predecessore Obama, ha nominato giudici della corte suprema iper-conservatori, ha giocato con le tariffe per punire stati nemici bypassando l’Organizzazione mondiale del commercio. Ha implementato misure avventate e restrittive sull’immigrazione, compresi due ordini esecutivi per vietare l’ingresso nel paese a persone provenienti da paesi con popolazione a maggioranza islamica. Ed è stato il primo presidente a lasciare la Casa Bianca con un tasso di disoccupazione più alto di quando è entrato. Ma è vero che molte politiche si possono disfare, ed è quello che ha fatto Joe Biden non appena ha preso possesso dello Studio Ovale, eliminando per esempio il Muslim ban nei primi giorni di presidenza. Quella che non si può cambiare, con una firma sopra un decreto, è la cultura politica, e non c’è niente di più importante nella cultura politica dell’assunzione delle proprie responsabilità quando si amministra una nazione.

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Non solo Trump, ma il Partito repubblicano  e i suoi principali esponenti oggi non si vogliono assumere le responsabilità di quello che è stato fatto finora. Non c’è stato – e probabilmente non ci sarà – alcun mea culpa, ma la strategia del GoP sembra quella di trovare un nuovo Trump, cioè un nuovo candidato che possa vincere, fino a che non arriva il momento di sostituirlo con un altro. E via così. La cultura politica resta la stessa, immutata, bisogna solo trovare un nuovo volto che possa aizzare le folle.  Finché Trump è stato un vincente, persone come Kevin McCarthy, e il senatore Mitch McConnell, leader di minoranza al Senato, hanno permesso alla mitomania trumpiana di guidare il paese. Non gli è interessato il contenuto, solo la possibilità di avere qualcuno che potesse battere i democratici alle presidenziali. Nato come un moderato, McConnell ha sempre utilizzato la popolarità del presidente per portare avanti la sua agenda politica. Finché la popolarità dell’outsider self-made-man televisivo senza peli sulla lingua non è iniziata a diminuire. Solo più di un anno dopo all’attacco al Campidoglio, quando McConnell ha capito che il Congresso avrebbe investigato in profondità, si è smarcato, dicendo: “Non c’è alcun dubbio che il presidente Trump sia concretamente e moralmente responsabile nell’aver provocato gli eventi di quel giorno”. Questo è un altro segnale di un partito allo sbando: usare Trump come capro espiatorio, nel momento in cui non è più utile per veicolare il voto parlando alla pancia dell’America.

 

Gli effetti del trumpismo sul Partito repubblicano, a livello strutturale, sono stati ancora più catastrofici di quelli al paese. Non solo: i trumpiani sono ancora vivi e vegeti dentro al GoP, nonostante Trump sia in declino. E basta vedere oggi chi c’è nel 118esimo Congresso, appena inaugurato dopo le elezioni di metà mandato, una forza che martedì è riuscita a creare, per la prima volta da cent’anni, una resistenza all’elezione del nuovo presunto speaker, McCarthy. Un voto solitamente di prassi è diventato lo strumento per far diventare protagonista una voce iper-conservativa che ha trovato energia, e voti, negli ultimi sei anni. Diciotto dei venti deputati che hanno votato contro l’elezione di McCarthy sono perpetuatori della Big Lie. Trump non ha più cariche pubbliche, ma è rimasta una sua truppa di negazionisti elettorali pronta a paralizzare il partito, e il Congresso. McCarthy, dopo anni a difendere l’ex presidente, è diventato ostaggio di quella stessa destra populista che ha aiutato a legittimare. Con Trump il GoP è stato svuotato pian piano dalle persone critiche verso il suo stile e le sue scelte. Molti hanno lasciato la politica, altri si sono ritirati prendendo la posizione di “vecchi saggi”, da lontano, come hanno fatto John McCain e due ex presidenti, George H. W. Bush e suo figlio. Altri ancora hanno deciso di attaccarlo frontalmente, diventando vittime di vendette politiche, e perdendo la propria posizione, come la deputata Liz Cheney. A novembre i repubblicani si aspettavano un’ondata rossa, una vittoria alle elezioni di metà mandato, viste come un referendum su Biden. Non essendoci stata l’ondata, invece di mettersi ad analizzare i motivi della sconfitta – in primis la scelta di candidati inadeguati e la paura dell’estremismo degli elettori conservatori moderati e indipendenti – l’establishment del GoP ha iniziato solamente a cercare un nuovo Trump, in parte puntando gli occhi sul governatore della Florida, Ron DeSantis. Il Partito repubblicano negli anni ha perso, per via di Trump, molti pezzi. Sono nati gruppi come i Never-Trump e il Lincoln Project, per quei conservatori che vorrebbero riportare il GoP a essere un partito serio, “quello di Lincoln e di Reagan”, come dicono molti. Anche chi in origine si professava antagonista di Trump, come il senatore Ted Cruz, che è arrivato secondo alle primarie del Partito repubblicano del 2016, o il senatore Marco Rubio, arrivato terzo. Entrambi, dopo essersi scontrati con The Donald nelle dirette televisive, ed esser stati insultati brutalmente, hanno finito per salire sul suo carro. Rubio nei dibattiti tv veniva chiamato Little Marco, su Cruz invece Trump aveva instillato il dubbio che suo padre fosse stato coinvolto nell’assassinio di JFK, e aveva anche detto che sua moglie era brutta. Allora Cruz rispondeva definendo Trump un “bugiardo patologico”, una persona “senza moralità” e un individuo “che non ha idea della differenza tra la verità e la menzogna”. 

 

Dopo la vittoria dell’avversario, Cruz è stato zitto, anche sul 6 gennaio. Non solo, a settembre ha votato contro una legge bipartisan, l’Electoral Count Reform and Presidential Transition Improvement Act, scritta per evitare in futuro un altro attacco al Campidoglio. Rubio nel 2016 diceva che Trump avrebbe “danneggiato l’America”, chiamandolo imbroglione. Alle midterm di quest’anno, per essere rieletto in Florida, ha chiesto invece l’appoggio dell’ex presidente dicendo: “Trump ha portato un sacco di persone e di nuove energie nel Partito repubblicano”. Questi sono solamente alcuni casi, ma ci si potrebbe scrivere un’enciclopedia di cambi di casacca populista. In questi sei anni per sopravvivere nel Partito repubblicano l’unica regola era essere fedeli a Trump, quasi come in una setta. Ma non si può incolpare completamente per il declino del partito.  Secondo molti analisti, come Dana Milbank del Washington Post e Jeremy W. Peters del New York Times,  da anni  il GoP stava diventando sempre più impermeabile al dialogo bipartisan. Milbank incolpa i vari leader del partito degli ultimi vent’anni, partendo da Newt Gingrich, che fu speaker negli anni Novanta, fino a McConnell, e spiega come abbiano lavorato attivamente per far perdere la fiducia degli Americani verso le istituzioni governative. “Tutto quello che Trump doveva fare era accendere un fiammifero”, ha scritto Milbank. E poi, nota Peters nel suo libro Insurgency, il ruolo dei media nel normalizzare una narrativa di estrema destra, da Fox News alla Breitbart di Bannon, è stato altrettanto importante per costruire i gradini che hanno portato al trumpismo. Il Tea Party, che negli anni obamiani sembrava una versione di destra, e un po’ comica, del suo contraltare anticapitalista, Occupy Wall Street, è riuscito a penetrare nel GoP, anche grazie a figure come McConnell e McCarthy. Personaggi come Sarah Palin, ex governatrice dell’Alaska, erano delle ottime pedine elettorali da usare in un momento in cui nasceva un sempre più forte populismo di destra opposto alle politiche di Obama. Non è un caso che Palin fosse stata scelta come candidata vicepresidente, per bilanciare il meno demagogico e più serio candidato presidente John McCain. 

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L’ultima seduta della commissione bipartisan nata per investigare gli attacchi del 6 gennaio, che si è tenuta il 19 dicembre 2022, in una sala appena dedicata alla veterana speaker uscente Nancy Pelosi, ha identificato le colpe di Trump nella sollevazione violenta che ha portato a cinque morti e a una ferita nell’anima della democrazia americana. Sarà il dipartimento di Giustizia a decidere come agire. A Trump vengono imputate quattro violazioni federali: ostacolare il Congresso, cospirare con l’obiettivo di frodare il paese e di rendere dichiarazioni mendaci e, soprattutto, incitamento all’insurrezione. Questo tentativo di compiere un coup d’état, seppur in modo indeciso e goffo, mandando in avanscoperta una folla esaltata di Proud Boys, No Vax e vichinghi-sciamani, ha mostrato a tutti la fragilità della democrazia quando a governare c’è chi non crede in questo sistema politico. E quando in molti sono disposti a credere a  illazioni senza alcun fondamento. In questi due anni la commissione ha lavorato per produrre un ultimo report dove viene mostrato che Trump sapeva che avrebbe perso e aveva già in mente durante la campagna di dichiarare le elezioni rubate, di coinvolgere istituzioni locali e nazionali e di avvalersi di personalità, come Rudy Giuliani, che avrebbero mentito per lui in pubblico. La Big Lie è stata costruita a tavolino, sapendo che Biden avrebbe vinto. Il gioco di Trump è diventato quello di convincere i suoi supporter e di indirizzarli a compiere un’azione eversiva, continuando a ripetere che lui era il legittimo presidente. Nel 2016, l’anno dell’elezione di Trump, la parola dell’anno per l’Oxford Dictionary fu “post-truth”, la post-verità, un concetto che allora sembrava nuovo e che ha portato al concetto di “fatti alternativi”. L’anno dopo Time riprendeva una sua vecchia copertina “Is God dead?”, sostituendola con “Is truth dead?”. La verità, è morta? Come scrisse Timothy Snyder sul New York Times nei giorni immediatamente successivi all’attacco al Congresso: “La post-verità è il pre-fascismo, e Trump è stato il nostro presidente post-verità”. 

 

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Non era mai successo nella storia degli Stati Uniti che un presidente venisse accusato di aver incitato una rivolta. E risulta molto strano il fatto che non ci sia stato un addio immediato a Trump da parte del partito repubblicano, nessun annuncio, nessun disconoscimento, nessun calcio nel sedere. Un’accusa #MeToo allontana molti più yes-men di un’accusa per istigazione alla rivolta. C’è ancora molta cautela, oltre alla paura di essere coinvolti nelle malefatte che dovrà analizzare il dipartimento di giustizia. Dopotutto Trump a metà novembre ha deciso di ricandidarsi per il 2024, con un anticipo che mette il partito in difficoltà. Fare delle primarie? Disconoscerlo? Nessuno ha ancora deciso. E’ dai tempi dei Whig, nel 1824, che non avviene una scissione, che sarebbe un suicidio in un sistema bipartitico solido come quello americano. Dopotutto, Trump, nel 2020 ha preso comunque più di 74 milioni di voti, una cifra superiore rispetto a quella del 2016 (quasi 63 milioni) quando sconfisse Hillary Clinton. C’è un evento che mostra bene la crisi del Partito repubblicano: alla National Republican Convention dell’agosto 2020 per la prima volta non è stato presentato un programma di partito, perché tutto si è giocato intorno alla figura di Trump. In quel momento Trump era il programma del partito. Non c’erano idee, non c’erano punti programmatici, non c’era una visione sul futuro. C’era solo la scommessa su un candidato che, siccome aveva convinto le folle nel 2016, si sperava ci riuscisse anche quattro anni dopo. Per tornare allo slogan “Make America great again”, non solo Trump ha fatto l’opposto, l’ha resa peggiore, ma lascia un’eredità che il Partito repubblicano non vuole affrontare. I McConnell, i McCarthy, i Rubio e i Cruz vogliono mettere tutto sotto il tappeto, senza nemmeno impegnarsi troppo nel nasconderlo, e puntare sul nuovo volto che potrà scontrarsi con i democratici. Anche con un nuovo Trump, ancora da decidere, restano però delle fratture, nella fibra stessa del rapporto tra elettorato e istituzioni che non sarà facile sanare. Un’apertura all’estremismo e la possibilità che un candidato sconfitto non possa riconoscere la legittimità dell’avversario sono ormai parte della cultura politica. E possono portare a causare tentativi di insurrezione, senza che nessuno si debba prendere la responsabilità per averlo permesso.

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