(foto Associated Press)

Fame di vita e culto della morte, sul corpo dell'Iran

Tatiana Boutourline

Per il regime i manifestanti sono “ferite purulente” da lavare via. Le gru con i cadaveri impiccati sono un monito costante contro i “belataklifi”, gli apatici. Che però da quasi tre mesi corrono e ballano e non si fermano

Sono trascorsi quasi tre mesi ormai dalla morte di Mahsa Amini, tre mesi  pieni di bellezza, di dolore e di coraggio, tre mesi di capelli al vento, di lacrimogeni e di proiettili, tre mesi e diciottomila arresti, tre mesi e quasi 500 morti accertati. Il 7 dicembre è stato pubblicato un video per ricordarli. Perché nel flusso continuo di notizie che cancellano altre notizie, fermare nella memoria questi volti serve a non dimenticare gli altri. Per il regime sono spie, hooligan, anime perdute, “polvere e spazzatura”. Ragazzi e ragazze che sorridono molto, bambini come Kian Pirfalak, adolescenti o poco più che ventenni. Mehran Samak che avanza giocoso, una spalla avanti e una indietro, con una torta di compleanno tra le mani, Sarina Esmailzadeh che indossa un cappello e un grembiule da chef, Hamid Reza Rouhi che canta da solo nella sua stanza, Nika Shakarami che lo fa con un microfono, sotto gli alberi, Mahsa Amini e Hadis Najafi che ballano, alzando le braccia, ruotando i polsi, ondeggiando con i fianchi. “Perché abbiamo paura quando arriva il tempo dei baci”, “per i sogni infranti dei bambini”, “perché abbiamo vergogna delle nostre tasche vuote”, “perché vogliamo essere liberi di ballare per strada”, spiega in sottofondo la voce struggente di Shervin Hajipour. Perché è per questo bisogno insopprimibile di libertà che stanno morendo i ragazzi in Iran, e nei loro occhi brilla la stessa luce che fino a 48 ore fa accendeva lo sguardo di Mohsen Shekari, che lavorava in un caffè, amava i videogiochi, suonava la chitarra e, magari, un giorno sarebbe riuscito ad aprire un canale YouTube.     

 

Fame di vita e culto della morte, non potrebbe essere più forte il contrasto tra i desideri dei rivoltosi e quelli dei loro aguzzini. “Occorre bruciare le ferite purulente”, ha detto l’ayatollah Khamenei alla vigilia dell’impiccagione di Mohsen Shekari. Vergogne da occultare, ferite da lavare con il sangue, non sono altro per il regime le Mahsa e i Mohsen d’Iran. Corpi che cercano altri corpi, corpi che non accettando di essere plasmati, né contenuti, e allora tanto vale disfarsene.

 

L’ora più buia arriva poco prima dell’alba, dice un proverbio persiano e questi sono davvero giorni scuri. La scommessa del regime sta nell’accelerazione della repressione, quella della piazza nella speranza. “Mohsen era un ragazzo atletico e forte, quando ha visto le forze di sicurezza che si scagliavano sui manifestanti ha rimosso un pezzo del guardrail e lo ha posizionato in mezzo alla strada per bloccarli”, ha detto suo zio. Secondo il regime aveva un machete in mano e ha ferito un bassiji, ma nessuna prova del presunto attacco e tanto meno della sua inimicizia verso Dio (moharebeh) è mai stata fornita, e la sua cosiddetta confessione è stata estorta dopo torture che il giorno che lo hanno ucciso gli segnavano ancora il volto.

 

C’è stato un tempo in cui le gru per le impiccagioni erano parte del paesaggio urbano delle città iraniane. Al sorgere del sole, nelle piazze attorno a queste gru, si radunavano frotte di curiosi e non era affatto insolita la presenza dei bambini. C’era gente che sghignazzava e altra gente che tratteneva il fiato. L’intento era palese: soffocare i sogni di ribellione, mostrando plasticamente cosa accade nella Repubblica islamica a chi non segue le sue regole. Ma l’effetto collaterale di queste scene era pure quello di desensibilizzare la popolazione nei confronti del dolore e della violenza e, in effetti nella letteratura clinica degli anni Ottanta e degli anni Novanta si rintracciano molti casi di bambini che si impiccano accidentalmente credendo che si tratti di un gioco.

 

Negli ultimi anni le esecuzioni pubbliche sono meno frequenti. Per evitare la cattiva pubblicità la Repubblica islamica preferisce impiccare dentro alle prigioni, ma il modus operandi è lo stesso. Il condannato deve essere cosciente, in buona salute, mai, neppure parzialmente, sedato. “Di solito ti trasferiscono uno o due giorni prima che succeda – ha raccontato Arman Abdolali, arrestato a 17 anni e poi ucciso a 25 – Non parli con nessuno, non riesci a pensare, sei vivo, ma sei già morto”. E’ l’Iran che non è più lo stesso. Nel 2020 una campagna contro le esecuzioni capitali è stata abbracciata da milioni di cittadini. Per mesi “No alla pena di morte” è stato uno degli hashtag più visibili sui social network iraniani, costringendo almeno in un caso la Corte suprema della Repubblica islamica a rivedere una condanna. Belataklifi, ossia in attesa, era così che li definivano gli antropologi, apatici e immobili, e invece da tre mesi i ragazzi iraniani non fanno che correre. E il regime invece a inseguire.

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