L'Iran, il regime che celebrava i propri martiri e ora uccide i propri figli

Tatiana Boutourline

E’ questo il tradimento intollerabile: “Per i nostri giovani, dopo 80 anni, a causa di una religione che sta uccidendo le persone, mi levo l’hijab”, dice Gohar

Potrebbe essere tua madre!”, grida un ragazzo nel cimitero di Robat Karim mentre un bassiji strattona Gohar Eshghi, la fa cadere e la trascina per i capelli. E’ il 2012 sono trascorsi 40 giorni dalla morte di suo figlio e il regime non può tollerare lo strazio di Gohar, la sua determinazione, il suo bisogno di verità. 

 

Questa è la sua storia, la storia di una madre rimpiccolita dagli anni e del figlio che le hanno strappato, la storia di un omicidio di stato, di un processo-farsa e di un j’accuse lungo dieci anni, ma questa è anche, forse soprattutto, la storia di una promessa mancata, quella di un regime che ambiva a creare un mondo in cui gli oppressi sarebbero stati portati nel palmo della mano e che poi, invece, è finito a punirne i figli, a tormentarne le madri, a ucciderne gli eroi.

 

E’ a causa di questo tradimento che una donna di ottant’anni ribalta quarant’anni di iconografia khomeinista e si fa filmare in salotto, seduta sul tappeto, a invocare la rivolta. “Per i nostri giovani, dopo 80 anni, a causa di una religione che sta uccidendo le persone, mi levo l’hijab (…). Se mi ascoltate, scendete nelle strade. Siete dei codardi se non lo fate”. Come le madri dei martiri della “sacra difesa” (la guerra Iran-Iraq), come le madri dei pasdaran caduti in Siria  e in Iraq, Gohar esibisce la foto del figlio tra le dita. Lo fa con una postura che rimanda alle altre, le chadori (donne che volontariamente indossano il chador invece del semplice foulard  con soprabito) umili e devote, donne che le somigliano e alle quali nessuno imputerebbe empie simpatie occidentali. Ma Gohar è diversa, non porta il lutto come una medaglia, non è disposta a piegarsi alla causa, a diventare un simbolo della propaganda, priva d’impaccio, senza traccia timidezza: Gohar lancia un’invettiva e quando si toglie il velo, non si sta liberando di un pezzo di stoffa, Gohar si sta spogliando di ogni appartenenza, la Repubblica islamica e le sue linee rosse, non l’islam, ma la religione di stato insieme alle sue contraddizioni e alle ipocrisie. Ridotta all’essenza, Gohar è solo una madre che ha perso un figlio, una madre che sente il dolore di ogni altra madre e di ogni altro figlio. Una madre che è disposta a tutto e che non ha più paura di niente. 

 

Ma per capire Gohar, prima occorre soffermarsi su Sattar, suo figlio. Ha 35 anni quando lo arrestano. Vive a Robat Karim, uno dei tanti piccoli centri-satellite di Teheran. E’ un uomo alto e massiccio, indossa una catenina d’oro sottile intorno al collo, ha gli occhi malinconici, la testa calva, condivide il nome con l’eroe della working class della rivoluzione costituzionale, Sattar Khan (1905-1911). Nelle foto che lo ritraggono, in posa, accanto alla sagoma minuta della madre, sembra un gigante buono. Della sua vita privata non si sa granché, gode di pochi mezzi, non ha figli, non è sposato. Sattar ha studiato più di quanto abbia fatto Gohar, questo sì, nel senso che ha completato il ciclo delle scuole medie, ma poi si è fermato, ed è finito ad arrabattarsi tra mille impieghi, il più stabile dei quali è quello di muratore. Quel che è certo è che è tutto tranne che un intellettuale e nei circoli riformisti del post Onda verde, la grande manifestazione del 2009, all’inizio non lo conosce nessuno. Sono agenti in borghese quelli che entrano in casa di Gohar, senza un mandato, il 30 ottobre del 2012. Buttano tutto per aria, mostrano il calcio della pistola e se lo portano via. L’accusa è di “propaganda contro la Repubblica islamica, vilipendio delle istituzioni, e possesso di materiale pericoloso per la sicurezza nazionale”. Per Sattar non si tratta di una sorpresa, riceve minacce da tempo ed è consapevole dei rischi cui va incontro da quando tiene un blog intitolato “La mia vita per il mio Iran”,  in cui scrive di prigionieri politici e diritti negati. Il suo unico pensiero – hanno raccontato gli amici – è  la responsabilità che si è assunto nei confronti della madre. Per il resto è pronto a tutto. “Se non esiste l’Iran, allora non esisterò neppure io”, scrive, citando il poeta Ferdowsi, nei giorni concitati che precedono l’arresto. E in un audio aggiunge: “Se arrivassero in quest’istante e mi spedissero alla forca, direi loro che preferisco una morte onorevole a una vita patetica”. E’ lo stile di Sattar Behesti andare dritto al dunque, i sofisticati giochi di parole d’uso nel persiano forbito dell’intelligentsia gli sono estranei, qua e là spunta pure qualche errore di ortografia, ma l’immediatezza della  prosa, la semplicità con cui sa descrivere l’Iran per come lo vede – pieno di mullah carichi d’odio e d’insofferenza, di funzionari corrotti, di rivoluzionari senza ideali che mandano soldi a Hezbollah e fanno morire di fame gli iraniani – gli attirano il rispetto di altri attivisti.

 

E in breve pure l’attenzione della polizia informatica, la Fata, perché Sattar è uno che non solo critica il nezam, ossia il regime, in generale, ma l’ayatollah Ali Khamenei in particolare. E spesso, davanti alla cautela dei tanti che la pensano come lui, ma non osano esporsi, si sente solo. “Pare che sia l’unico a crederci – si sfoga – dovrò continuare a lottare per conto mio”.  Alla frustrazione  spesso si alterna la tristezza, sono anni complicati, gli anni di Mahmoud Ahmadinejad, centinaia di dissidenti sono fuggiti all’estero, e chi è rimasto è più cinico e disilluso della generazione precedente, quella che sperava che riformare il regime fosse possibile e s’era lasciata incantare,  almeno per un po’, dalle promesse di Mohammed Khatami. Il clima negli anni in cui Sattar s’appassiona alla politica e all’attivismo è cambiato. Non c’è più spazio per pensare in grande, l’atmosfera è soffocante e cupa, ogni ombra è diventata  una minaccia. In uno degli ultimi messaggi Sattar racconta l’intensificarsi degli inseguimenti e delle telefonate anonime. “Dicono che non devo parlare dei problemi che ha questo paese, ma io non posso tacere”, annota il 29 ottobre. Negli stessi giorni, una voce rabbiosa all’altro capo della cornetta lo avverte: “Di’ a tua madre di preparare il vestito nero per il tuo funerale. Lo indosserà presto se non ti decidi a chiudere la bocca”. Ormai è tutto scritto, rimangono solo poche ore. Sattar non farà più in tempo ad aggiornare il blog. 

 

Il 4 novembre altri esponenti delle forze di sicurezza si presentano a casa di Gohar per rivolgerle delle domande a proposito della salute del figlio, come è capitato ai genitori di Mahsa Amini, iniziano a ventilare l’ipotesi che abbia problemi di cuore. L’epilogo dei due casi purtroppo è lo stesso. Sattar è già morto il 3 di novembre, ma alla famiglia sarà comunicato solo il 6, quando squilla il telefono e il genero di Gohar viene invitato a comprare un lotto al cimitero, perché il giorno seguente potranno ritirare la salma di Sattar dalla prigione di Kahrizak. Ma poi quello che accade è che a nessuno dei familiari viene consentito di raccogliersi accanto al corpo di Sattar che verrà lavato e preparato per la sepoltura dal personale penitenziario. Il cognato, chiamato a confermarne l'identità, lo vede solo per una manciata di istanti libero dal sudario che lo avvolge, e tuttavia fa a tempo a notare lividi, ferite profonde e uno schiacciamento a livello del cranio.  Al funerale, il 7 novembre gli agenti sono dappertutto e la sorella di Sattar viene addirittura ammanettata. All’inizio la strada per la verità è tutta in salita. Le richieste di Gohar cadono nel vuoto e  al posto di una spiegazione le viene offerta una piccola fortuna per tacere. A quaranta giorni dalla morte di Sattar, quando la famiglia si riunisce per piangerlo al cimitero, degli uomini sconosciuti si avventano su Gohar, causandole ferite gravi abbastanza da necessitare un ricovero in ospedale. “Possono fare quello che vogliono. Il sangue di mio figlio non è in vendita”, dichiara Gohar durante un colloquio con Saham News. Perché nel frattempo, un po’ per via della testardaggine di Gohar, un po’ per via della lotta intestina che oppone i fedelissimi di Ahmandinejad agli esponenti dell’establishment clericale, il caso di Sattar è approdato sui giornali.

 

E dalla stampa di regime al Parlamento, il salto è breve. I quotidiani vicini ad Ahmadinejad accusano i potenti fratelli Larijani, parecchio in auge in quegli anni, di voler insabbiare la verità: uno, Sadegh, è a capo della Giustizia, l’altro, Ali, presiede il Parlamento. Questo braccio di ferro produce molto rumore, ma le indagini si muovono a rilento e uno dei medici che ha constato la presenza di segni evidenti di tortura sul corpo di Sattar finisce a sua volta in carcere. Quando viene istruito, il processo si trasforma in una farsa. Più di 40 prigionerei politici rinchiusi a Evin, dove Sattar trascorre la prima notte dopo l’arresto, firmano una lettera descrivendo la condizione di “fortissima sofferenza fisica e psicologica” in cui versa quando fa il suo ingresso nella sezione 350 della prigione. Raccontano pure delle torture che lo stesso Sattar rivela di avere subito, ma non serve a niente. Nonostante i referti del medico legale e una dichiarazione scritta rilasciata a Evin dallo stesso Sattar, nonostante la confessione dell’omicida, il  procuratore generale torna a insinuare che la morte sia da addebitare a un infarto e che “i rapporti preliminari non rilevano segni di percosse”. Akbar Taghizadeh, l’agente della Fata riconosciuto come il responsabile della morte di Sattar, viene condannato a tre anni di prigione, due anni di esilio, e 74 frustate. Si tratta di una condanna per omicidio involontario. “In un paese in cui i giornalisti scontano fino a sei anni di prigione a causa di un articolo sgradito, una condanna a tre anni per omicidio è quantomeno curiosa”, sottolinea l’avvocato di Gohar, Giti Pourfazel.  

 

Il caso è chiuso, ma a dispetto della sentenza-beffa, la famiglia e gli amici di Sattar non si arrendono, seguitano a pretendere giustizia, a gridare la verità, a riunirsi sulla sua tomba, mentre Gohar, la piccola madre, sempre vestita di nero, di anno in anno, diventa più forte. “Sono 43 anni che la Repubblica islamica uccide i nostri ragazzi – ha detto nel 2021 durante un’intervista concessa a Radio Farda nel nono anniversario della morte di Sattar – Lo hanno portato via e lo hanno ucciso. Il suo assassino lo ha confessato. Mi ha detto che ha continuato a colpirlo, finché non si è accasciato  e che lo ha fatto perché Sattar rideva e si prendeva gioco di lui.  Lui picchiava e a Sattar, intanto, collassavano i polmoni”. Così, in questi dieci anni, gli anni in cui Gohar ha trovato   la sua voce, gli anni in cui ha avuto il coraggio di gridare: “La Guida Suprema è l’omicida di mio figlio e non lo perdonerò mai”, gli anni in cui è stata intimidita e condotta in carcere, in cui ha incontrato Catherine Ashton, scritto ad Hassan Rohani e a Donald Trump, gli anni in cui ha abbracciato decine di altre  “dadkhahi”, le tante, troppe “madri che cercano giustizia”, perché nella Repubblica islamica non c’è bisogno di andare in guerra per incontrare il martirio, Gohar è diventata il volto di un Iran che non si riconosce nella geopolitica della morte e invoca fino all’ultimo respiro la cultura della vita.