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A Cuba l’uragano Ian fa esplodere le proteste contro il regime

Maurizio Stefanini

In tutta l’isola si è avvertito l’impatto del ciclone, in particolare per il modo in cui martedì il Sistema Eléctrico Nacional è completamente collassato, assieme a internet e servizi di telefonia cellulare

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Il regime cubano si era appena rifatto una immagine internazionale con il referendum su un nuovo Codice di famiglia che introduce matrimoni e adozioni gay e la maternità surrogata, e di nuovo nell’isola si accendono proteste di massa per il blackout seguito al passaggio dell’uragano Ian, con 11 milioni di persone rimaste senza luce. “¡Camine, camine!” è stato il grido con cui i seimila abitanti di Surgidero de Batabanó hanno addirittura impedito alla carovana di auto del presidente Miguel Díaz-Canel di fermarsi, e allo stesso capo dello Stato di scendere dalla vettura. E’ accaduto giovedì, dopo che il medium ufficiale Cubadebate aveva annunciato la visita allo scopo di “dialogare con il popolo”.

 

Un video apparso sulle reti sociali mostra appunto l’ira popolare e i fischi in questo municipio, dove erano stati particolarmente forti i danni per piogge intense, inondazioni e venti a 200 all’ora. Ma in tutta l’isola si è avvertito l’impatto, in particolare per il modo in cui martedì il Sistema Eléctrico Nacional è completamente collassato, assieme a internet e servizi di telefonia cellulare. Ovviamente, il governo non può essere considerato responsabile per la catastrofe naturale, che ha fatto anche tre vittime. Ma lo è per la grave crisi economica che va avanti da due anni, e che ha aggravato problemi annosi come il deficit di produzione energetica, la mancata manutenzione delle infrastrutture, la carenza di alimenti e medicine. Gravi danni avrebbe sofferto l’impresa Tabacuba, che gestisce la produzione di tabacco. Sarebbero almeno 8.500 gli ettari di coltivazioni danneggiati secondo il Ministero dell’Agricoltura. All’Avana sono crollati completamente cinque edifici e in parte altri 68. E anche nella capitale giovedì notte ci sono state proteste. “Vogliamo luce! Vogliamo luce!”, hanno scandito in strada almeno 400 persone picchiando su pentole e casseruole nel quartiere di Cerro, secondo la testimonianza di una giornalista della Associated Press. La polizia ha provato a intervenire, ma la gente è rimasta in strada, e alcuni hanno accerchiato un gruppo di operai che stava cercando di riparare un traliccio e un trasformatore. Il disagio è ancora più grande per il fatto che gran parte dei cubani cucina con l’elettricità, dopo una campagna di “conversione” delle cucine voluta dal governo nella prima decade di questo secolo per risparmiare energia da gas, petrolio e cucine tradizionali che consumavano legna.

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In realtà, dopo l’esplosione del luglio del 2021 per via della cattiva gestione della pandemia, le proteste a Cuba non si sono più fermate, malgrado le centinaia di arresti e condanne che ne sono seguiti. Secondo un rapporto dell’Observatorio Cubano de Conflictos, solo tra luglio e agosto ci sarebbero state 624 proteste. Ma con la guerra in corso su certe notizie c’è meno attenzione. Era invece finito sui media internazionali il referendum di domenica scorsa – un voto in realtà inutile, visto che l’Assemblea nazionale del Potere popolare aveva già approvato la riforma col solito voto unanime con cui approva tutto.  Ma ha rappresentato comunque il risultato meno “totalitario” di un voto a Cuba da quando c’è il regime comunista, e anche se non c’era stata in realtà una vera campagna, omelie delle chiese e messaggi sui social hanno comunque alimentato un certo dibattito. Una parte dell’opposizione aveva chiesto di votare no al di là dei contenuti, per manifestare comunque una protesta e denunciare l’ipocrisia di un regime che permette di votare sul matrimonio gay ma non di eleggere liberamente i governanti. A rischio però di farsi bollare come omofoba, proprio da un regime che al suo inizio gli omosessuali li aveva mandati nei campi di rieducazione della Umap (il Pride cubano nasce proprio da un movimento di protesta contro questa repressione castrista).

 

In qualche modo, l’operazione di immagine era riuscita. Ma adesso i nodi tornano al pettine. A Cuba ci sono 13 grandi centrali generatrici di energia: otto termoelettriche tradizionali di epoca sovietica più cinque centrali galleggianti prese dalla Turchia nel 2019. Inoltre ci sono piccole centrali sparse, in base alla riforma energetica del 2006. Ma manca appunto la manutenzione: il governo dice per colpa dell’embargo americano, ma presumibilmente non solo per quello. La crisi del Venezuela ha anche ridotto le forniture di carburante a prezzi agevolati da parte del regime di Caracas.

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