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l'arma della paura

L'ipocrisia del regime in Iran è sulla bocca di tutti

Tatiana Boutourline

La protesta spiazza il regime, che parla poco e nasconde crepe e scandali. Mentre per le strade le persone protestano, un ex ufficiale ha diffuso un file che indica che la causa della morte di Mahsa è un colpo alla testa

È uno strano dialogo quello tra la mullahcrazia e le piazze iraniane, un po’ come quando durante una discussione una persona grida paonazza e perde il filo del discorso e l’altra resta imperturbabile e seguita a ripetere le sue ragioni. Perché la protesta produce simboli e ne trae nutrimento – un ragazzo che canta l’umiliazione delle sorelle, una ragazza che si sfila il foulard in sella a un bicicletta, due giovani donne senza velo che siedono  a far colazione in un caffè, le Rosa Parks di Teheran è stato scritto – e a tutta questa vitalità, a tutta questa esuberanza, il regime è capace solo di controbattere con le solite parole d’ordine

 

È tutta colpa degli americani, dei sionisti, di Bbc farsi, dice il regime,  e replica alla bellezza e al coraggio con le solite tattiche fatte di arresti, intimidazioni, censure. Mercoledì sera il presidente Ebrahim Raisi è comparso in televisione. “È un fatto che rattrista tutti”, ha detto parlando con la consueta espressione monocorde della morte di Mahsa Amini. E ha aggiunto: “Il governo non consentirà alla gente di turbare la pace della nostra società”.   

 

Nonostante le minacce, “la pace”, mercoledì sera, pareva ancora irrimediabilmente compromessa. È difficile presentare un quadro esaustivo della situazione in mezzo ai continui blackout della rete, al proliferare di immagini, di numeri e di notizie difficili da verificare, ma quel che è certo, al momento, è che le proteste non si placano e che al netto della ferocia, il modo in cui il regime sta dialogando con la piazza è fiacco. L’unica arma che pare intenzionato a sfoderare è la paura: far intendere che quel che si è visto finora è niente, quasi che nelle segrete stanze in cui tutto si decide nessuno credesse nella possibilità di riallacciare una qualsivoglia forma di patto sociale. 

 

“È probabile che il governo riesca ad adescare un po’ di persone e le trascini qui dai piccoli centri intorno a Teheran per una recita del sostegno”, ha commentato la settimana scorsa il religioso Abolfazl Najafi Tehrani. Poiché di norma è questo quello che accade in Iran quando il nezam ha bisogno di lanciare un messaggio: si riempiono i pulmini con gente attratta dalla prospettiva di una diaria e di un panino al pollo e la si fa marciare nella capitale a favore di telecamera. Il problema è che le piazze finte non hanno mai lo stesso impatto di quelle vere. Gli slogan suonano fasulli e vuoti, e i manifestanti a pagamento prima o poi cominciano a sbadigliare.

 

Voci critiche provenienti dagli ambienti riformisti sottolineano da giorni che la strategia del regime è fallimentare. Secondo il deputato Gholamreza Nouri Ghezeljeh, “cercare di imporre una professione di fede con i manganelli” è inutile e  “non è possibile trascinare a forza la gente verso  il paradiso”. Said Leilaz, uno degli analisti più ascoltati dalle fazioni a favore di un qualche dialogo immagina che “le camionette della polizia morale si ritireranno dalle strade”. Ma il problema per il regime è che a essere contestato non è soltanto l’obbligo del velo.

 

I ragazzi che in queste ore scandiscono il nome di Mahsa Amini, invece di gridare “Marg bar Amrika” come i figuranti delle piazze finte, gridano “Marg bar diktator”, morte al dittatore – e il dittatore è Ali Khamenei, la Guida suprema. Il problema per il regime è che l’hijab è uno dei totem inviolabili su cui poggia l’architrave khomeinista e se cade quello rischia di crollare anche il resto. È per questo che il regime requisisce le ambulanze e le usa per caricarci su i manifestanti, è per questo che seguita un po’ a sparare e un po’ a balbettare schierando ragazzini imberbi nelle strade e accusando gli universitari di essere hooligan e delinquenti. 

 

Difficile arginare la perdita di legittimità sparando, difficile pure placare l’opinione pubblica, quando il rapporto con il blocco sociale che dovresti rappresentare si è sfarinato. Il regime reprime ma non affronta i motivi della rivolta, è talmente attorcigliato nelle sue omissioni e nelle sue bugie, talmente abituato a imporre in pubblico una morale che gran parte dei suoi insider non rispetta in privato che si trova in contropiede, in imbarazzo. 

 

L’ipocrisia del sistema è sulla bocca di tutti. A suscitare indignazione è tanto la violenza quanto l’ipocrisia, la leggerezza con cui le regole imposte ai cittadini iraniani vengono impunemente violate dai potenti e dai loro famigliari.  Ultimo in ordine di tempo lo scandalo che ha travolto il figlio della vicepresidente di Raisi, Ensieh Khazali, che in Canada vende network Vpn per bypassare la censura, mentre a Teheran il governo della madre si balocca con tecnologie approntate per isolare gli iraniani dal resto del mondo. E mentre si tenta di organizzare uno sciopero generale in sostegno delle proteste a cui minacciano di partecipare, dopo professori e camionisti, anche gli operai che lavorano nel settore strategico del petrolio, un ex ufficiale dei pasdaran ha diffuso un file audio in cui dice che il rapporto forense sulla morte di Mahsa indica che la causa è un colpo inferto alla testa

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