in birmania

Il calvario di Aung San Suu Kyi

Massimo Morello

L’ennesima condanna alla Signora è lo specchio dell’orrore che ha fatto precipitare la Birmania in una vera e propria guerra civile

“Un calvario”. Così, con una parola tremendamente evocativa, è definito il percorso di dolore di Aung San Suu Kyi. Un calvario “insieme al suo popolo aggredito, bombardato, arrestato, torturato, condannato a morte”. Sono tutte parole della senatrice Albertina Soliani, anima dell’Associazione per l’amicizia Italia Birmania e soprattutto amica della leader birmana arrestata il primo febbraio 2021, dopo il colpo di stato guidato dal generale Min Aung Hlaing. Il calvario di Suu Kyi era iniziato allora, e da allora è continuato, di stazione in stazione con sempre maggior crudeltà.

 

Albertina Soliani scriveva “calvario” il 15 agosto scorso, quando il tribunale militare aveva condannato Aung San Suu Kyi, 77 anni, ad altri 6 anni di carcere con accuse di corruzione. Si aggiungevano a precedenti condanne portando il totale a 17. Ieri, 2 settembre, gli anni sono diventati venti  quando è stata dichiarata colpevole di frode elettorale nelle elezioni del 2020. Elezioni in cui la Signora e il suo partito, la National League for Democracy, commisero il tremendo errore di vincere con l’80 per cento delle preferenze, mettendo in crisi un sistema costituzionale elaborato dagli stessi militari per assicurarsi il potere. A questi venti anni di carcere non è chiaro quanti se ne possano aggiungere una volta che la Signora sarà “condannata” (non è prevedibile altra sentenza) per altre otto accuse. Nel frattempo, è stata trasferita dagli arresti domiciliari a una cella di un carcere di Naypyidaw, dove trascorre le sue giornate in isolamento e in condizioni che alcune fonti hanno definito disumane. Come quelle delle altre undicimila persone incarcerate per essersi opposte al regime.

 

Sembra quasi che la giunta, in puro clima da tragedia, voglia far espiare a Suu Kyi il terrore che comincia a diffondersi come una maledizione tra i militari. Inizialmente, infatti, i processi e la prigionia di Suu Kyi apparivano una forma di ricatto nei confronti dell’opposizione e, ancor più dell’opinione internazionale. La Signora era “l’ostaggio perfetto”. Ma poi la trama è divenuta più oscura, sfuggendo anche alle più ciniche regole della realpolitik. Il trattamento di Aung San Suu Kyi è divenuto lo specchio dell’orrore che ha fatto precipitare la Birmania in una vera e propria guerra civile. I morti ormai, non sono più le “sole” migliaia tra gli oppositori, ma si sono moltiplicati tra le forze della resistenza, gli uomini, le donne e i bambini massacrati dai bombardamenti. Altre migliaia, forse oltre diecimila, però, sono i militari vittime di una guerriglia urbana sempre più insidiosa e di una guerra nella giungla in cui devono fronteggiare sul loro territorio milizie etniche, ben addestrate e armate.

 

In queste condizioni la giunta è costretta a reclutamenti forzati, mentre diventa sempre più forte la sindrome dell’accerchiamento, tanto che la maggior parte delle famiglie dei militari (almeno quelle degli ufficiali) sono state trasferite a Naypyidaw, la nuova capitale costruita come un bunker in mezzo al nulla da un precedente governo militare con la collaborazione di tecnici nordcoreani. Le sole vie di scampo per la giunta sembrano condurre a Mosca e a Pechino. Ma la Russia è lontana e la Cina sempre meno paziente. Paradossalmente il maggior aiuto offerto ai militari è nel silenzio dell’occidente. Che era stato così pronto a mobilitarsi in favore dei Rohingya e contro la Signora.

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