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la lettera

La fatwa contro la libertà che colpì Rusdhie

Nadine Gordimer

“Caro Salman ti scrivo, sperando che quello che passi sia già un brutto ricordo”. Trent’anni fa il Nobel per la Letteratura, Nadine Gordimer, fu tra le poche a esporsi con una lettera contro gli ayatollah

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Nadine Gordimer, scrittrice sudafricana e premio Nobel per la Letteratura del 1991, il 14 febbraio 1992 pubblicò in contemporanea sul Guardian di Londra, il Pais a Madrid e Libération a Parigi una lettera a Salman Rushdie. La riproduciamo qui.

 

Salman, ogni volta che scrivo qualcosa che ti riguarda nutro la speranza che, prima di essere pubblicato, il mio pezzo risulti superato dagli eventi: che la fatwa che esige la tua morte sia stata definitivamente abolita. Vorrei con tutte le mie forze che, quando questa lettera giungerà nelle tue mani, essa appartenga definitivamente al tuo passato. Continuo a chiedere, a me stessa e a tutti, come sia possibile che il mondo abbia consentito che la sentenza assassina emessa nei tuoi confronti venisse prorogata di anno in anno.

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Com’è possibile che i governi democratici, in particolare quello britannico – governi che si sono sempre occupati delle violazioni dei diritti umani in ogni parte del mondo –, non abbiano fatto nulla per condannare questa grossolana violazione? Se si può sacrificare la vita sia pur di un solo essere umano, perché si sono compiuti sforzi ingenti e si sono avviati negoziati interminabili a livello internazionale (e con successo) a favore di singoli ostaggi politici? Possibile che la persecuzione religiosa sia una volta ancora tollerata, alle soglie del Duemila, mentre non lo è la persecuzione politica? Perché Amnesty International non ha riconosciuto il tipo di carcerazione di cui sei vittima? Una carcerazione che trasforma in prigione la terra intera, dal momento che non esiste un solo angolo di mondo dove tu possa andare, in cui la fatwa che legittima la tua morte non sia in grado di sfidare la legislazione locale. Perché l’Onu non vuole vederti per quello che sei, la preda e – ogni giorno, in ogni luogo – la vittima potenziale di un terrorismo internazionale? Possibile che il terrorismo internazionale appaia accettabile, qualora venga invocato da una religione grande e rispettata?

 

Sfogliando il dizionario Oxford dei neologismi, mi accorgo che il vocabolo “fatwa” è ormai entrato nella lingua inglese, come fast food e fast track. Ha ottenuto il riconoscimento di un dizionario prestigioso. Tutto ciò può avere solo un significato: la fatwa è davvero qualcosa da accettarsi come fatto della vita, della tua vita, naturalmente. Una familiarità davvero micidiale. Viene tolto l’orrore a una volontà di delitto. La semantica riesce a conciliarla con l’esperienza di ogni giorno. Il vocabolo è stato codificato come dato di conoscenza marginale utile agli appassionati di enigmistica. In realtà incide nella nostra esperienza quotidiana – nell’esperienza di ognuno di noi – sia pure in una maniera diversa e folgorante con la quale la maggior parte delle persone non dovrà mai misurarsi.

 

Le persone non devono essere scrittori per ritrovarsi esposte, nella loro stessa vita o nella vita futura dei loro figli, alle minacce dei fanatici: religiosi, razzisti o sessisti che siano. Un individuo può vivere la sua vita privata mansueto come un topolino e tuttavia, un giorno, a causa del colore della sua pelle o della natura dei suoi rapporti personali o del paese d’origine di suo nonno, ritrovarsi condannato alla distruzione come un paria. L’indifferenza al pericolo corso da un singolo individuo è fatale alla libertà di tutti quanti. Quanto agli scrittori, quelli che come noi si trovano in situazioni di rischio, la fatwa non potrà mai essere tenuta lontana come qualcosa che capita solo agli altri.

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Grazie alle forze del terrorismo internazionale al servizio del fanatismo, l’emisfero settentrionale e quello meridionale costituiscono ormai un unico territorio di caccia. Questa settimana in cui ricorre il terribile anniversario della tua condanna, mi trovavo a partecipare a una conferenza di scrittori africani provenienti da ogni parte del continente. Ho appena ricordato che il grande tema dei ‘Versetti satanici’ è un tema che riguarda tutti noi e che continuerà sempre a riguardarci e a riguardare la letteratura africana in quanto parte di una letteratura mondiale postcoloniale, giacché il tuo romanzo è un’esplorazione innovativa di una delle esperienze più intense da noi condivise: la personalità individuale in una fase di transizione tra due culture indotte ad accostarsi in quel mondo postcoloniale la cui arena è l’Europa, l’America del nord e l’America del sud, ma anche i territori fisici da loro un tempo invasi.

 

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Tu non hai invocato né chiesto che venisse tolta la vita a qualcuno. Non l’hai fatto attraverso nessun personaggio del tuo romanzo. La fatwa, che s’arroga il diritto di disporre della tua vita, è un crimine contro l’umanità che getta un’ombra sul libero sviluppo della letteratura in ogni parte del mondo. Caro Salman, mi auguro che tu possa stracciare questa lettera come qualcosa di cui ormai non hai più bisogno. Mi auguro che possiamo cominciare a scriverci l’un l’altro dall’intimo del mondo dell’immaginazione, nella splendida lotta per catturare il mondo, nella quale ci si sforza di dare un senso alla vita, per noi stessi e per quanti leggono i nostri libri. 
Con amore, 
Nadine Gordimer

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